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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Cappelle gentilizie del cimitero monumentale, la memoria scolpita nella pietra

Nei prossimi giorni molti visiteranno “i giardini consacrati al pianto”, un tempo luoghi di sconfinate produzioni artistiche, ed avranno modo di osservare queste speciali espressioni dell’architettura che ambiscono a plasticizzare il ricordo della vita. Ecco quelle più belle al Gran Camposanto di Messina

Le architetture sono dei volumi modellati al cui interno si svolgono attività umane e in funzione di queste si articolano gli spazi interni che condizionano non poco la composizione degli esterni (facciate). Quindi le architetture possono definirsi tali solo se al loro interno si sviluppano funzioni vitali o se sono complemento di un sistema di funzioni antropiche.

Vi è un caso in cui l’architettura resta architettura anche se al suo interno non vi scorre la vita ma vi ristagna la morte: le cappelle funerarie. Veri e propri edifici che contengono le bare di una famiglia o di un gruppo di sociale.

L’architettura delle Cappelle Gentilizie è un’architettura libera. Un’architettura senza vincoli di funzione. Gli unici limiti sono quello statico e quello idraulico. Stare in piedi e smaltire l’acqua per garantirsi una lunga durata, non bisogna garantire luce, aria ed altre ergonomie agli ospiti.

Queste Cappelle, non essendo contenitori di vita, hanno interni poco significativi, gioco forza standardizzati dal modulo fatale del loculo e della bara. Viceversa i loro involucri sono liberi di esprimere semantiche metafisiche, astratte, surreali, allusive di imperscrutabili mondi e significati, pur mantenendo spesso i canoni stilistici e servendosi degli stilemi del gusto corrente. Ad onor del vero ve ne sono alcune inutilmente concrete, coerenti, pragmatiche, retaggio delle logiche dei vivi.

Il loro senso intrinseco sta nelle forme, più o meno solenni, negli involucri, più o meno opulenti e nei segni più o meno retorici nel celebrare l’esistenza trascorsa. Le Cappelle Gentilizie, come ogni architettura, esprimono un valore simbolico emotivo. Nel lor caso è un valore che serve ai vivi per continuare la loro competizione con gli altri vivi usando i morti.

Nei prossimi giorni molti visiteranno “i giardini consacrati al pianto”, un tempo luoghi di sconfinate produzioni artistiche, ed avranno modo di osservare queste speciali espressioni dell’architettura che ambiscono a plasticizzare il ricordo della vita. In un certo senso sono un modo per sopravvivere all’oblio, rendendo viva la memoria scolpendo il ricordo degli uomini nella pietra.

I “processi sociali” post terremoto attraverso le più belle cappelle gentilizie del Gran camposanto

Nei sepolcreti le aree destinate alle cappelle di famiglia sono delle vere e proprie piccole città modellate da organismi architettonici: hanno strade, slarghi, piazze, fontane, panchine, verde.  Piccole città per morti che comunque, come nelle città dei vivi, le costruzioni hanno valenze e gerarchie diverse: ci sono monumenti, case signorili, regge e anche case popolari. Esse continuano a metaforizzare le ambiziose competizioni sociali dei vivi. Sono il significante di una patetica resistenza a quella livella eterna, cantata dal Principe de Curtis, che omologa ogni conquista terrena. Di fatto sono delle città ideali, dove ogni architettura esprime un linguaggio compiuto e non subisce superfetazioni, stratificazioni o contaminazioni: così nascono e così restano, non hanno sopravvenute esigenze esistenziali. Sono, stranamente, un modello di perfezione urbana.

Sotto questo profilo ritengo interessante il Cimitero Monumentale di Messina, soprattutto nelle cappelle sorte negli anni successivi al 1908, dove trionfa lo stesso eclettismo che è stato la cifra estetica dei palazzi della nuova Messina. Un nuovo gusto esogeno che è traslato tout court dal centro storico al camposanto.

In questa particolare produzione architettonica è presente un notevole valore storico artistico e documentale. L’elemento distintivo che emerge è un neo-eclettismo declinato più liberamente e forse molto più espressivo di quello urbano. Vi sono interventi di progettistici come Giuseppe Mallandrino e Vincenzo Vinci, due epigoni di Gino Coppedè, che hanno realizzato molti palazzi della nuova Messina. Si tratta di un repertorio che ha assorbito molto dal panorama degli architetti neo-eclettici italiani, alcuni persino dal gigantismo Giulio Ulisse Arata, e dall’onirismo di Gaetano Moretti, dei quali risuonano alcuni verbi. Comunque sono espressione autentica e pura di un nuovo gusto cittadino, che a sua volta fu espressione di una nuova struttura sociale (vedi repertorio fotografico allegato).

Queste cappelle del Gran Camposanto declinano verbi che raccontano i processi sociali del post terremoto. I loro involucri narrano in maniera lampante le dinamiche con le quali si è gestita la nuova vita della città ma anche la nuova morte. Lo fanno in modo fastoso, eccentrico, con stilemi suggestivi, che in molti casi hanno anticipato quei linguaggi urbani che ancora oggi, lungo le strade del mondo dei vivi offrono singolari suggestioni.   

Un modo paradossale per celebrare la morte.

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