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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Il tempio di San Giacomo impantanato, rapporto sul centro storico che sta con i piedi nell'acqua

Il prezioso sito archeologico a rischio per la falda costiera “tappata” con la ricostruzione sopra le macerie del terremoto del 1908. Un innalzamento che crea danni nel cuore della città e diventa metafora delle paludi culturali che strappano via gli ultimi brandelli della nostra memoria

Messina è una città che vive sulle sue macerie, è non è solo una metafora.

La nuova città ricostruita dopo la catastrofe del 1908 ha un calpestio più alto rispetto alla precedente. Per intenderci la quota delle strade cittadine era quella dell’attuale sacrato della Chiesa dei Catalani. La differenza di quota che si nota tra la via Garibaldi e la Chiesa di Catalani ci illustra come la nuova città poggia su un terrapieno costituito prevalentemente dalle macerie della città sinistrata dal terremoto e demolita dagli uomini. Un grande terrapieno contenuto dall’innalzamento della banchina del porto che si estende dal Torrente Porta legna al Torrente Boccetta. Questo aumento di quota giustifica la presenza dei cantinati nei nuovi edifici della città nuova, per la ragione tecnica che non è possibile poggiare fondazioni su terreno di riporto, meno che mai in aree ad alto rischio sismico. Si tratta di un espediente operato per smaltire le macerie.

Per contenere l’enorme terrapieno è stato previsto l’innalzamento della banchina del porto che prima di allora era costituita da blocchi di conglomerato cementizio profondi circa 3 metri. Dopo il terremoto questi blocchi sono stati sostituiti da Cassoni in conglomerato cementizio profondi oltre 15 metri (informazioni tratte da uno studio di Alfredo Natoli e Alvise Usosich, apparso sul periodico Città e Territorio” nel numero di settenbre/2001).

La falda costiera cantata da Omero

Dal punto di vista geomorfologico il centro storico della città di Messina sorge su una pianura alluvionale nella quale scorrono delle falde di subalveo. L’area interessata è proprio quella che si affaccia sull’ansa portuale e si estende dal Torrente Boccetta al Torrente Portalegni. In essa da millenni si verificano degli accumuli acquiferi che determinano una vasta falda costiera. Questa falda per secoli ha alimentato le fontane cittadine, tra queste la famosa fontana del Pozzo Leone. Una grande fonte naturale cantata persino da Omero nell’Odissea ed intitolata al Pontefice Leone II, un messinese salito al Soglio di Pietro dal 682 al 683. Una fonte che fu a lungo luogo di relazione sociale e di polarizzazione della vita cittadina. La fonte per molto tempo fu detta anche: Fontana delle belle donne”.

Questa falda fino al 1908 defluiva versandosi naturalmente nelle acque del porto. Dopo, a seguito della scelta di sollevare il calpestio della città per seppellire le macerie, la nuova banchina del porto, più alta e più profonda e senza soluzione di continuità, si trasformò in un autentico ostacolo al defluire in mare della falda, costituendo praticamente un tappo. La nuova struttura di contenimento così profonda ed estesa ha agevolato l’accumulo, l’innalzamento e l’estensione della falda costiera nell’area cui oggi insiste il nuovo centro storico. D’allora, quando si verifica una piovosità lievemente superiore alla norma, i cantinati della nuova Messina vengono invasi dall’acqua come una Venezia nascosta che c’è ma non si vede.

I danni per il centro storico e i suoi monumenti

Questa balsana soluzione da oltre cent’anni ostacola il naturale deflusso dell’accumulo acquifero e trasforma Messina in una città celatamente impantanata. Ad ogni evento meteorologico di discreta portata il centro storico si allaga e l’acqua affiora nelle zone di quota più bassa rispetto all’attuale calpestio. Questo spiega i frequenti allagamenti, senza soluzione, dello spazio a ridosso dell’abside del Duomo. Spiega anche l’enorme ritardo dei lavori di restauro e ricostruzione del Teatro Vittorio Emanuele II, parzialmente distrutto in quel tragico 28 dicembre e tornato alla luce solo nel 1980 (72 anni dopo). Il teatro per oltre mezzo secolo fu una piscina. Al suo interno emergevano le acque della fonte del Pozzo Leone (un tempo ubicata in posizione antistante) tanto che durante i lavori, all’interno del cantiere, gli operai si muovevano facendo uso di barche.

Insomma buona parte del centro storico sta con i piedi nell’acqua. E i danni sono ingenti. Non solo alle strutture ma anche a quei brandelli di memoria antica che spesso il caso ci consegna, come la Chiesa Antica Chiesa di S. Giacomo Apostolo, portata alla luce nel 2000, durante l’ennesimo tentativo di drenare le acque che emergevano dietro la Cattedrale. In quella occasione fu operato uno scavo per realizzare un canale che conducesse verso il mare le acque invasive. In tale circostanza sono stati rinvenuti, a seguito di una esplorazione archeologica preventiva operata dalla Soprintendenza ai Beni culturali di Messina le vestige di un autentico brandello nobile della Messina Normanna: Il tempio di S. Giacomo. Un tassello preziosissimo della Stagione Arabo Siculo Normanna, come San Tommaso, la SS. Annunziata dei Catalani e Santa Maria della Scala, Santa Maria di Mili. I successivi scavi condotti dalla Soprintendenza hanno portato alla luce, quello che, grazie agli studi di Elvira D’Amico, possiamo annoverare come una delle più preziose testimonianze della storia messinese.

I reperti dell’antica chiesa di S. Giacomo e la città impantanata

Lo scavo è uno scavo parziale rimasto contenuto nello spazio di “largo S. Giacomo”. Esso non fa riemergere l’intero reperto archeologico, poiché buona parte della sua geometria giace sotto l’attuale tracciato di via Loggia dei Mercanti. Si tratta di una traccia del passato di cui possiamo avere solo una pallida idea sbirciandola da uno strappo praticato nel tessuto urbano, perché non si è riusciti a portarla interamente alla luce. Come per altre testimonianze di notevole valore culturale, la città si è privata di questo essenziale lacerto di memoria lasciandolo sepolto per ragioni di funzionalità urbana non riuscendo a trovare efficaci soluzioni che coniugassero, in un perfetto equilibrio, sia la spinta dell’interesse culturale che quella logistica di un’ergonomica viabilità cittadina. È chiaro che se mettiamo in contrapposizione i due interessi prevale sempre il pragmatismo della praticità è il tempio resta sepolto. Così restiamo condannati a non poter svelare mai la nostra storia. Forse perché è meglio fantasticarla? Forse, come per la realtà odierna, preferiamo non indagare a fondo, limitandoci a quella perniciosa autoreferenzialità, che dà sfogo a quel rinomato esercizio vanaglorioso metaforizzato con lo Serranus Scriba?

Oggi il Tempio di San Giacomo, nonostante l’impegno meritorio di associazioni culturali che si occupano di periodiche pulizie, dell’alta sorveglianza della Soprintendenza che mette in atto tutte le possibili azioni di tutela, del Comune che sta avviando ulteriori e nuovi processi di valorizzazione che vanno oltre la cartellonistica illustrativa dei beni culturali e monumentali, urge di soluzioni radicali, visto che ad ogni piovasco viene invaso dalle acque della falda costiera che sommerge la sua preziosa pavimentazione medievale e assale le sue antiche strutture. Presto l’acqua diventa putrido acquitrino melmoso e spuntano veloci canneti che invadono il sito e rendono illeggibile quel poco che si può leggere.

Insomma San Giacomo è un bene culturale impantanato, come è impantanata la memoria collettiva. Un prezioso sito archeologico impaludato che appare come la lucida metafora delle paludi culturali in cui è stata fatta sorgere la città dopo il disastro del 1908: “sabbie immobili” su cui poggia fisicamente e metafisicamente.

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