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Anteprime, debutto da romanziere per Domenico Barrilà: “Riporto Messina a casa... di Henriette”

A tu per tu con lo psicoterapeuta adleriano che da ragazzino inciampa in una tomba e scopre una commovente storia che racconta dopo 50 anni di ricerche. Una riflessione storica, civile, politica, antropologica che parla della città dello Stretto dalla prima all'ultima riga. Senza citarla mai

“La casa di Henriette”, segnatevi questo titolo, perché sarà una sorpresa, anche se per vederla con i vostri occhi dovrete aspettare il 7 di novembre, data fissata per la sua uscita nazionale.

Abbiamo potuto sfogliarne le bozze, rimanendo travolti dalla commozione, per la storia e per l’epilogo inaspettato. Sarà una sorpresa, certo, soprattutto per noi messinesi, messi di fronte ad una storia che ci riguarda dalla prima all’ultima parola, che ci fa sentire commossi e orgogliosi. Attenzione, non di quell’orgoglio proverbiale e vano di cui spesso facciamo inutilmente sfoggio, semmai fieri di appartenere ad un passato che, purtroppo, sembra sigillato in quel cimitero, il nostro cimitero, protagonista di questa storia così profondamente reale da sembra magica e al contempo così magica da essere reale, perché lo è, trattandosi di una vicenda vera, la cui scintilla parte dal cimitero della nostra città, quasi 150 anni fa, e poi, come un incendio, ci porta in giro per il mondo, alla ricerca di una misteriosa bambina dissepolta dall’autore.

Domenico Barrilà, messinese e milanese, psicoanalista adleriano, autore di oltre venti saggi di successo, tradotto in diversi paesi. Certamente, uno degli scrittori siciliani più tradotti.

La sorpresa di cui parliamo, “La casa di Henriette”, il suo primo romanzo, coglie immediatamente nel segno. Da messinesi abbiamo voluto la sua prima intervista su questa svolta letteraria inattesa.

Domanda. Ti abbiamo letto in alcuni saggi importanti, soprattutto quelli usciti per Feltrinelli negli ultimi sette anni, ma ti abbiamo visto alle prese anche con l’editoria per l’infanzia, con la collana “Crescere senza effetti collaterali”, tradotta persino in Cina e in Corea del Sud. Ora arriva il tuo primo romanzo. Conoscendola come saggista a tutto tondo mi chiedo cosa c’è dietro a questa virata.

Risposta. In realtà non c’è nessuna virata. “La casa di Henriette” è un libro che da 50 anni esatti vive in una sorta di gestazione involontaria, dal giorno in cui, a 16 anni, inciampai in un rudere all’interno del nostro camposanto. Un piccolo incidente che nella mia vita si è risolto in un terremoto. Noi gli effetti dei terremoti li conosciamo bene.

D. Dunque, romanziere per caso.

R. Romanziere non mi ci sento, nasco e rimango saggista, questo è stato uno dei problemi nella pubblicazione di questo volume. La mia scelta di mantenere ostinatamente un linguaggio saggistico, non gradita agli editor con i quali via via mi confrontavo. Qualcuno mi aveva addirittura suggerito di consegnare il manoscritto affinché potesse essere riscritto da una mano esperta. Una vera mostruosità. In una splendida intervista sul Corriere della Sera, Ginevra Bompiani, figlia del celebre editore Valentino, dice: “Oggi per moltissimi autori la scrittura è solo un aspetto della vita. Vedo meno consistenza e tanto, troppo editing. La sensazione è che si scrivano libri nella convinzione che, tanto, poi, ci pensa l’editor a metterli a posto. Per non parlare dello strapotere degli agenti: sono tanti e agguerriti”. Ginevra, oggi ottantenne, conferma che il mondo dell’editoria è strano ed è popolato da personaggi singolari. Un anno fa, mio figlio maggiore, che è un grande lettore, mi aveva detto: “Papà, se tu sfogli alcune decine di libri di narrativa scritti recentemente in Italia, ti pare di leggere sempre lo stesso libro”. Adesso capisco il senso dell’affermazione.

Superconnessi ma scollegati dal prossimo, vademecum di Barrilà

D. Immagino abbia temuto per l’uscita.

R. Il problema non era questo, avendo pubblicato tantissimo non ero roso dall’ansia del neofita, così mi sono affidato a lettori esperti, conosciuti nei miei trent’anni di peregrinazioni tra sale conferenze, biblioteche e scuole. Sono arrivate risposte incoraggianti, come quella lunga e precisa di Francesca Ciampichetti, decana dei bibliotecari marchigiani, la quale, oltre che nella storia, individuava proprio nella scrittura il punto di forza del romanzo. 

D. Insomma, alla fine l’editore sarebbe arrivato.

R. Si trattava di capire che prezzo, in termini di scrittura, avrei dovuto pagare, posto che non intendevo pagarne. Poi, un giorno, mi sono ricordato di un editore, medio e prestigioso, che stimavo molto per l’impegno nel campo dei diritti, umani, animali, ambientali. Antonio Monaco, patron della casa editrice Sonda, che dirige insieme alla moglie, Paola Costanzo. Gli ho telefonato e lui si è dichiarato felice della proposta. Si è preso un mese di tempo per leggere e riflettere, scaduto il quale tutto è successo in fretta. Paola e Antonio sono due persone concrete e dirette, con le quali è facile intendersi. Credo di poterlo dire con cognizione di causa, avendo scritto per diversi importanti editori. Per inclinazione naturale amo gli adulti, ossia le persone che mostrano di avere un capo e una coda.

D. Mi chiedo se il prezzo, per usare, il termine di prima, è stato alto.

R. Nessun prezzo, solo un consiglio intelligente e preziosissimo. Il primo capitolo, come si dice oggi, spoilerava troppo, quindi era meglio “discioglierlo” nel testo, e partire dal secondo capitolo. Avevano ragione loro. Fatto questo passo, autonomamente mi sono rimesso davanti al testo, revisionandolo e accorciandolo di un centinaio di pagine. Mi era diventato chiaro che c’erano parti su cui intervenire, questo accade sempre, anche nella saggistica, ma è un lavoro che deve fare l’autore non un ghost writer. Un romanzo non è un’opera collettiva, l’autore è chi firma, vanno bene i consigli, le intrusioni molto meno.

D. A quale genere pensi appartenga quest’opera.

R. Non mi sono posto questa domanda, ma senza dubbio è un romanzo di formazione. Non solo, è anche una riflessione storica, civile, politica, antropologica. La Città dello Stretto è il “luogo”, la protagonista che mostra diverse facce, tanto da essere quasi indefinibile.

D. A proposito della città sono rimasta incuriosita da un particolare, nelle quasi 200 pagine del romanzo non usi mai il suo nome proprio.

R. Le ragioni sono soggettive, personali, intime, legate ai sentimenti che muovono la trama. Ogni lettore trarrà le sue impressioni, ma l’indefinibile di cui dicevo poc’anzi, non è estraneo alla mia scelta. Certamente la Messina con la quale si interfacciarono i protagonisti della storia, è una città molto diversa rispetto a quella di oggi, troppo diversa, talmente diversa da sembrare un altro luogo. Gli elementi costanti sono quelli paesaggistici, che ritornano spesso nel racconto, come una scenografia maestosa e immobile che sopravvive ai personaggi.

D. Colpisce il sottotitolo della tua opera: “Lontano, fino alle tue radici”

R. Si, la lettura svelerà quanto la narrazione tocchi la vita di ciascuno di noi.

D. Un’ultima domanda. Lo psicoanalista affermato quanto è presente.

R. Considero il mio lavoro solo una parte della mia vita, non provo nessuna fascinazione e neppure mi voglio identificare con esso, sono una persona piuttosto ordinaria, e ammetto di provare un certo fastidio per chi cerca di creare una mistica per una disciplina che è scientifica quando io sono un centometrista. Siamo di fronte a un sistema di finzioni che vanno maneggiate con cura e adattate volta per volta sulla persona che ti trovi di fronte. Vado al supermercato, guardo la partita, stendo i panni, cucino, tiro l’aspirapolvere e mi impegno come posso nella vita civile. Mi piacerebbe farlo con maggiore intensità, ma non possiamo arrivare dappertutto.

Se c’è una lezione che uno psicologo può imparare da Henriette, è che la vita è meno epica di quanto certi colleghi sovraesposti vorrebbero fare credere. Due anni fa mi è stato chiesto un autografo su un mio libro per papa Francesco. Ho pensato che il Pontefice la mattina era andato in bagno a fare la pipì e, se fortunato, anche il resto. La dedica è stata scritta di conseguenza.

Ecco, se tutti ci prendessimo meno sul serio, forse il mondo girerebbe meglio.

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