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Gino Mauro, il giornalismo del "Capo": le telefonate di Leopardi e Manzoni in redazione

Il 30 marzo saranno sei anni dalla morte del delegato editoriale de "La Sicilia" che tra chiacchiere serali davanti ai pesci dell'acquario, personaggi noti che si dichiaravano con nomi di scrittori per non rivelare la fonte e imprecazioni dialettali ha creato una scuola e delle regole per i giovani colleghi degli anni Ottanta e Novanta

“Qual è a notizia? Fozza, dimmillu. Na cosa cu jonnu”. Per la verità, il dialogo si svolgeva quasi sempre in dialetto, ma per rispetto alla professione e ai lettori, meglio raccontarla in italiano. Ricominciamo. “Qual è la notizia? Forza, dimmelo. Facciamo in fretta”. Oddio, in fretta. Minimo un’ora, anche di più se necessario. Perché la “sacra” riunione di redazione del quotidiano La Sicilia e dell’emittente televisiva Antenna Sicilia edizione di Messina- nella sede al primo piano del palazzo di via Tommaso Cannizzaro bassa angolo via La Farina che ospitava anche la Facoltà di Scienze Politiche – era il momento clou della giornata.  Il direttore dell’orchestra era Gino Mauro: il prossimo 30 marzo ricorreranno i sei anni dalla sua morte. Ufficialmente delegato editoriale. In pratica capo della redazione. Un omone burbero, con i (pochi) capelli lunghi e la barba, sigaro in bocca, camicie di colori sgargianti, collane improbabili, occhiali scuri che celavano la carnagione olivastra e le occhiaie sempre profonde. Il suo vocione, eccellente nelle dirette televisive, rimbombava da una parte all’altra della redazione, dallo studio televisivo alle postazioni dei cronisti. 

“Qual è la notizia? Forza, dimmelo. Facciamo in fretta”, tuonava Gino Mauro, poco dopo le 13. Tutti attorno a lui, i cronisti e redattori, sciorinavano le notizie raccolte: nera, giudiziaria, politica, bianca, sport, cultura. E poi le pagine della provincia: Jonica, Taormina-Giardini, Valle Alcantara, Tirreno-Nebrodi. Tutti dovevano partecipare e contribuire a quel rito collegiale: illustrare le notizie, rispondere al fuoco di fila di domande del “Capo” (così si faceva chiamare Gino Mauro) per accertare se la notizia era stata verificata, se le fonti erano attendibili, se c’era ulteriore approfondimento da fare. Percorso analogo veniva seguito con i redattori, quelli che poi avrebbero materialmente confezionato le pagine, con le notizie e gli articoli dei corrispondenti, spesso chiamati uno per uno per rispondere alle stesse incalzanti domande.  Lui la chiamava “la mia scuola”. In effetti, a quella scuola ci si finiva spesso per caso o per segnalazione di amici in comune. Spesso si malediceva il giorno di aver conosciuto il Capo, di umore mutevole, amante dei “cazziatoni”, capace di spremere tutti come un limone per giorni e giorni. Ma da quella scuola si usciva con la schiena dritta, il senso della notizia acuito ai massimi livelli, l’integrità morale dura come una roccia, una forza d’animo inesauribile e un’irrefrenabile voglia di raccontare la verità, solo la verità, al servizio dei lettori. Alcuni mollavano dopo poche settimane, altri resistevano anni. Il difetto più grande? Non poter dare un posto vero a tutti i talenti che da lì sono passati. Gli pesava questa limitazione: crescere i suoi pupilli e poi vederli rinforzare la concorrenza o testate in altre regioni.
Sembrano trascorsi secoli, e invece tutto questo avveniva alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90. In quella scuola sono cresciuti fior di giornalisti, che oggi occupano posti di spessore in tante testate sparse per l’Italia, o in enti o in aziende o associazioni di categoria. Più o meno tutti hanno tra i 45 ed i 65 anni. 

La tecnica del Capo

La tecnica giornalistica del Capo consisteva nella lettura minuziosa di titoli e articoli, nella verifica maniacale della notizia, nella valutazione della verità, della continenza e della pertinenza dell’informazione. Ed era accompagnata da un continuo apprendimento a 360 gradi: dal diritto amministrativo al codice penale, dalla procedura penale alle regole sportive, dalle basi per comprendere gli eventi musicali alla cultura generale, dalla grammatica alla sintassi, dal modo di parlare a quello di porre domande, gli sguardi, i sorrisi, perfino le carezze e i gesti di goliardia per placare i momenti di tensione. Una pecca: impaginazione ripetitiva, avrebbe potuto osare di più a livello grafico. Sarebbe facile, per chi ha vissuto anni accanto a Gino Mauro, a tal punto da considerarlo ancora oggi “Il Maestro” e non “un maestro”, soffermarsi sugli aspetti caricaturali di un personaggio eccentrico. Il Capo lavorava 345 giorni l’anno (nei rimanenti 20 spariva ed andava in ferie in posti sconosciuti), dalle 9 del mattino, quando chiamava per sapere se la redazione aveva dato o preso buchi dalla concorrenza, all’una di notte, anche il 24 e il 25 dicembre, il 31 dicembre e l’1 gennaio, Pasqua e Pasquetta, l’1 maggio. Giorni comandati in cui si prendeva il lusso di cominciare alle 14 anziché alle 8.30.  Già, perché allora, quando gli articoli dei corrispondenti arrivavano “fuori sacco” con il bus di linea, i comunicati con il fax, le foto si trasmettevano con la telescrivente, i computer avevano software primordiali di impaginazione e non c’erano i telefonini, l’attività della redazione cominciava alle 8-8.30 dalla lettura dei quotidiani, proseguiva con la ricerca delle notizie direttamente sul campo (e non sui social) e proseguiva fino a tarda notte, anche l’una, per la cronaca nera. Senza contare, che buona parte delle fonti era reperibile la sera, quando tornavano a casa. Sì, vero, il Capo era spesso sopra le righe. Sbuffava, imprecava, poi rideva a crepapelle, correggeva, si autocorreggeva, ghignava, straparlava e sbagliava. Certo che sbagliava. Ma, in un modo o nell’altro, recuperava la situazione. E, chiuse le pagine, si rilassava guardando il suo grande acquario e i documentari di Piero Angela, prima di chiamare il giornalista di turno serale per l’ultimo prezioso compito: il borderò del giorno successivo. 

Le regole

Tre grandi insegnamenti: 
1)    “Devi rimanere umile, se ti fotti la testa è finita”
2)    “Se vuoi essere il numero uno, devi imparare a fare bene il numero due”
3)    “Nessun uomo è libero, ma ha ampio raggio d’azione solo chi sceglie bene il suo padrone”
Una redazione piccola, che ha fatto rumore, che ha perso uno dei suoi migliori collaboratori, Beppe Alfano, nella ricerca costante della verità sulla mafia barcellonese. Una redazione che è stata una scuola di giornalismo, quando queste scuole non esistevano.
E c’era un valore aggiunto difficile da capire. Dove si fermava la bravura del cronista nella ricerca della notizia, cominciava la rete del Capo, quella che attivava con la porta della sua stanza chiusa. Da quella stanza arrivava il completamento della notizia, o la smentita categorica, o l’aggancio per approfondire, o il divieto di pubblicarla. Alcune sue fonti avevano il vezzo di farsi chiamare, per telefono, con nomi di grandi letterati: Leopardi, Manzoni, Tomasi di Lampedusa. Alcuni si capiva chi erano davvero. Personaggi noti e meno noti della città, comunque influenti. Quelle quattro stanze di via Tommaso Cannizzaro a volte sembravano il crocevia politico ed economico della città, uno dei punti in cui si prendevano decisioni di spessore. Non per arricchirsi o per commettere illeciti, ma per il gusto di incidere positivamente nella società, di lasciare il segno. La base, però, era e rimaneva l’informazione vera, pulita, secca, attendibile, verificata. Ma anche un ruolo di autorevole guida della società che l’informazione, oggi, ha perso. Tra una gara di like, condivisioni social, fake news e isterie di massa, la chiacchierata serale con i pesci dell’acquario, a bene vedere, sembra ancora oggi una cosa molto sensata.


 

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