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“Superconnessi ma scollegati dal prossimo”, vademecum per salvare i nostri figli dal caos digitale

Lo psicoterapeuta Domenico Barrilà nelle scuole di Lipari e Torregrotta torna a parlare di un tema caro agli educatori. E avverte: «La colpa non è della tecnologia. Educare si può”. E non solo i giovani

Passiamo continuamente da una chat all’altra, da un post di Facebook ad una foto di Instagram. Un fenomeno che investe anche gli adulti ma che rischia di riformattare completamente i cervelli dei cosiddetti nativi digitali. Basta interrompere improvvisamente ai nostri ragazzi uno dei giochi elettronici in cui uccidere diventa uno sport, per vedere quanto violente possono diventare le loro reazioni.

Ma come le reti social hanno condizionato le menti dei nostri figli e il nostro rapporto con loro? Come possiamo riprendere in mano le redini dell’educazione e vincere la sfida pedagogica che ci è stata lanciata dall’universo digitale?

Ne parliamo con Domenico Barrilà, psicoterapeuta e analista adleriano, impegnato da oltre trent’anni nell’attività clinica che accompagna con una produzione editoriale dalla quale sono scaturiti una ventina di fortunati volumi, diversi dei quali tradotti all’estero. L’ultimo, edito da Feltrinelli, si intitola proprio “I Superconnessi”, ha esaurito la prima edizione e continua a macinare strada. Barrilà, in giro per l’Italia con una serie di conferenze sul tema, è stato nei giorni scorsi all’istituto comprensivo di Torregrotta e a quello di Lipari “Santa Lucia” per un incontro formativo con docenti e genitori. A Torregrotta anche il dibattito con gli studenti nell’aula magna.

D. Il suo libro, “I Superconnessi” si impone come un tentativo, riuscito, di rimettere le cose al loro posto nel rapporto tra giovani generazioni e nuove tecnologie.

Supercommessi, ma scollegati dal prossimo: vademecum di Barrilà

R. «Uno sforzo necessario, eravamo precipitati all’interno di un equivoco che diventava ogni giorno più serio, così una questione prettamente educativa si era trasformata in un’emergenza tecnologia, alimentando una confusione che non serviva a nessuno, di certo non ai ragazzi».

D. Dove abbiamo sbagliato noi educatori.

R. «Ci siamo dimenticati che il prodotto finale di ogni percorso pedagogico è sempre lo stesso e così sarà sino a quando su questo pianeta ci saranno esseri umani. Portare in armonia gli interessi di bambini e ragazzi con quelli del loro prossimo, c’è lo impone la nostra natura cooperativa. Un principio che vale anche quando entra in gioco una rivoluzione come quella digitale. Non è la tecnologia a dettare le regole alla nostra umanità, ma viceversa. Se si rompe questo rapporto il futuro delle giovani generazioni diventa una lotteria».

D. Cosa rende visibili gli effetti dell’universo digitale nella vita dei nostri figli. 

R. «Un ottimo indicatore della situazione è la qualità della loro vita sociale, quindi più che frugare nel loro Smartphone, più che spiare il loro spazio intimo, sarebbe meglio dare un’occhiata al modo in cui si rapportano con gli altri.  L’isolamento, lo scarso interesse per ciò che accade intorno, sono sintomi da registrare».

D. Come interferiscono le tecnologie digitali con la testa di bambini e ragazzi.

R. «Innanzi tutto assorbono moltissima attenzione e possono dare luogo a fenomeni di dipendenza, questo mi pare evidente. Ma quello che da ora in avanti dovremo tenere sotto osservazione è la loro ricaduta sulla formazione dello stile di vita, la nostra impronta specifica, quella serie di lineamenti del nostro agire che ci rendono riconoscibili.  Il mattone fondamentale dello stile di vita è senza dubbio l’ambiente. Ebbene, con l’avvento del digitale, l’ambiente si è “smaterializzato”, facendosi sostituire da elementi impalpabili e fortemente manipolati, spesso privi di ogni evidenza ma incredibilmente convincenti». 

D. Insiste molto sulla necessità di osservare e stigmatizza l’abitudine a spiare.

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R. «Osservare è esattamente il contrario di spiare. C’è la stessa differenza che passa tra un rapporto fondato sulla fiducia e uno fondato sulla diffidenza. Osservare significa stabilire nessi quindi mettersi nella condizione di intervenire con maggiore consapevolezza, mentre spiare rimanda a un modello di rapporto fondato sul controllo e sulla mancanza di stima nell’altro. I ragazzi percepiscono la differenza tra questi due modelli di approccio e rispondono di conseguenza, accorciando le distanze quando si sentono trattati con generosità e rispetto, dilatandole quando si sentono attori all’interno di una relazione educativa poliziesca».

D. Cosa cercano i ragazzi nella Rete.

R. «Esattamente ciò che cerchiamo noi adulti, riconoscimento e considerazione Tutto ciò che facciamo è funzionale al raggiungimento di questi scopi, sanissimi e vitali, il problema nasce quando le modalità con cui li perseguiamo si “ammalano” e ci mettono in rotta di collisione coi nostri simili. La comunicazione virtuale rende più probabile questo tipo di esito».

D. Ritiene che le nuove tecnologie debbano fare paura a noi educatori.

R. «In realtà ce ne fanno già, perché in parte sovvertono le regole del gioco. Non dimentichiamo che per la prima volta nella storia della pedagogia, i ragazzi ne sanno più degli adulti, e questo è pedagogicamente imbarazzante».

D. Abbiamo un antidoto sottomano?

R. «Si chiama famiglia, oggi occorre più famiglia proprio le nuove tecnologie diventano sempre più centrale, perché è chiamata a incrementare nei ragazzi quella che chiamo nostalgia della realtà».

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