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Giovedì, 25 Aprile 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Dai balconi alle sopralevazioni, i mostri di Messina città più "superfetata" d'Italia

E’ colpa dell’abusivismo o di taluni processi che inevitabilmente lo istigano? Di certo, l'alterazione del paesaggio urbano è una delle più gravi patologie della città. Accade quando l’architettura non è stata pensata per essere perfettamente compatibile con le esigenze umane

Messina è una delle città più superfetata d’Italia. Il fenomeno è pandemico ed infetta la visione del già squilibrato paesaggio urbano. La visione della città tra le tante patologie denuncia anche quella di una infinita chiusura precaria e posticcia di balconi, terrazzi, realizzazioni improprie di tettoie, ampliamenti incoerenti. Insomma un susseguirsi senza sosta di alterazioni delle già modeste architetture.

Quando davanti a certe contaminazioni dell’architettura, istintivamente, volgiamo la nostra indignazione morale contro coloro che hanno messo in atto quello scempio e verso coloro che l’ho hanno approvato, permesso, o non vigilando ne hanno consentito la realizzazione, stiamo confondendo l’effetto con la causa.

Abusivismo e dintorni, clic sulla città

L’architettura è forma e funzione. Un’architettura senza una funzione è una scultura, viceversa, senza una forma diventa un semplice utensile per ripararsi dagli agenti atmosferici, nel quale non si attiva nessun processo identitario.

Vi sono architetture che contengono in sé la potenzialità della superfetazione, della deturpazione dell’idea originale. Questo accade, in maniera inevitabile, quando un organismo architettonico non assolve pienamente alla propria funzione. Esso verrà inevitabilmente contaminato, sovrascritto, e non ci sono controlli, leggi e regolamenti che possono impedirlo. Se l’architettura non funziona l’uomo tende a modificarla per renderla funzionale o più funzionale. Se questa naturale appropriazione non riesce avviene l’abbandono. Segno che quell’organismo conteneva in sé anche il germe della obsolescenza. Non era stato concepito per essere adattabile ad esigenze future poiché il suo programmato orizzonte funzionale era miope.

L’inevitabile adattamento antropologico

Nella qualità funzionale delle architetture risiede la loro potenziale integrità futura e il mantenimento delle loro proporzioni, del loro equilibrio e, in certi casi, della loro bellezza. Quando un’architettura è deficitaria di potenziale funzionale sarà sicuramente chi la abita a migliorare questo standard attraverso azioni di adattamento antropologico e antropometrico. Se chi opera questo adattamento dispone di buon gusto e/o di risorse economica, può accadere che l’adattamento funzionale risulti armonico, equilibrato, coerente e complementare al partito architettonico e alla forma originale, viceversa, se chi ha l’esigenza di migliorare la funzionalità di un’architettura non è culturalmente ed economicamente attrezzato avviene la deturpazione della forma originale e/o dell’involucro architettonico attraverso le più disparate soluzioni che annientano la forma originaria, come: chiusure di balconi in alluminio anodizzato, tettoie incoerenti, ampliamenti sproporzionati, soprelevazioni improbabili, corpi aggiunti, etc. Tutti questi elementi ultronei, oltre a deturpare le architetture, quasi sempre turbano anche il contesto in cui esse ricadono, o ancor peggio alterano quegli spazi urbani che le architetture stesse modellano o ne sono il margine.

L’architettura contiene la vita è la vita muta, così gli spazi dell’architettura debbono essere preordinati per essere compatibili con queste mutazioni: un appartamento deve essere progettato affinché nei suoi spazi vi entri la culla ed esca agevolmente la bara. Se le ergonomie interne delle forme architettoniche prevedono una buona compatibilità alle esigenze funzionali di chi vi abita ed una buona adattabilità alle esigenze funzionali che nascono nel corso della vita, l’architettura conserverà la sua forma originale. Le prestazioni di una architettura debbono assolvere ad ogni esigenza esistenziale da quella minori a quelle straordinarie come: l’occasionale bisogno di spazi per gli ospiti o l’aumento del nucleo famigliare per imprevista procreazione, oppure molto più semplicemente essere adattabile, senza perdite formali, nel caso di sopraggiunte incapacità motorie e sensoriali di chi vi vive, per vecchiaia, malattia o incidente.

L’architettura deve essere preveggente, deve accogliere le nuove necessità senza alterare la sua forma e la sua identità. Essa come un uomo: cresce, invecchia, si trasforma ma mantiene la sua identità e la sua riconoscibilità, viceversa se durante la sua esistenza quest’uomo fosse costretto ad aggiungersi un terzo braccio perché i due non funzionano dalla nascita, se dovesse avere la necessità trapiantarsi un’altra gamba per compensare l’atrofia congenita degli arti inferiori o se avesse l’esigenza di aggiungersi un terzo occhio per via di una forte miopia innata, diverrebbe irriconoscibile, sarebbe un mostro! Così è l’architettura: diventa orribile quando non riesce a mantenere la forma e l’equilibrio iniziale.

Insomma, l’architettura deve funzionare! Essere un equilibrio perfetto tra forma ed esigenze vitali. Essa è di qualità se pensata e realizzata affinché risponda alle necessità di chi la abita: quelle attuali e quelle future.

I veri responsabili delle contaminazioni architettoniche

Quando vediamo una superfetazione che turba l’estetica di un’architettura, l’armonia di un contesto urbano, la visione di un paesaggio, dobbiamo pensare che quella trasformazione incongrua è il sintomo di un deficit progettuale e/o di un errore delle norme che ne disciplinano la progettazione. Dobbiamo avere la consapevolezza che questa deformazione è già insita nel progetto o istigata dalle norme che il progettista gioco forza ha dovuto osservare. Dobbiamo pensare che il progettista e/o le regole non sono riusciti a rendere funzionale il presente ed il futuro di quella architettura.

La responsabilità, al netto di tutte le vischiosità dell’azione burocratica, di verifica e di tutela, è sempre del progettista e di certi leggi e di certi regolamenti, che talvolta entrano in corto circuito con la qualità del costruire per l’uomo. Norme che spesso non considerano che la misura e lo scopo di ogni architettura è l’uomo. L’uomo e le sue esigenze esistenziali, i suoi bisogni antropologici e le sue ineludibili esigenze antropometriche. È l’uomo che vive gli spazi modellati dall’architettura, e di questo i legislatori e/o i progettisti dovrebbero tenerne sacralmente conto, al fine di scongiurare frequenti e paradossali eterogenesi dei fini come: la legge che prevale sulle necessità umane e il progettista che non progetta per il benessere dell’uomo ma per osservare la legge. Dimenticando entrambi quanto suggeriva Protagora: “è l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono perché sono e di quelle che non sono perchè non sono”, intendendo oltre alle misure fisiche e ai bisogni biologici anche le idee, il pensiero, le abitudini, le tradizioni culturali, le consuetudini, la psicologia, dell’uomo.

Così un’architettura che non è stata pensata per essere perfettamente compatibile con le esigenze umane, ha la sua forma o la sua bellezza destinate ad essere violate. Pertanto quando vediamo le brutture che costellano il paesaggio urbano, che turbano l’armonia della visione delle città, dobbiamo fare un processo di valutazione diverso da quello che spesso l’istinto ci detta, e chiederci: ma chi e perché non ha pensato che sarebbe servita una tettoia, un serbatoio di raccolta, una stanza in più, un bagnetto in più, un ripostiglio, etc.?

Bisogna avere sempre la consapevolezza che questo tipo di abusivismo, in fondo, e sempre figlio di norme fatte male e di architetture pensa peggio, che agevolano il fenomeno del superfetazionismo che nuoce alla bellezza sociale e civile, corrompendo, prima ancora delle forme, le coscienze.

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