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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Le fornaci di Patti, la bellezza di una architettura industriale distrutta dalla modernità

Oggi quell’armonia architettonica non esiste più. Tristemente abbattuta per far posto ad una comoda e redditizia architettura residenziale afasica, resistono miracolosamente i poetici profferli simmetrici

Osservando dall’alto il tessuto urbano dell’abitato di Patti Marina, un borgo marinaro tra Capo Tindari e  Capo Calavà, salta agli occhi un singolare vuoto urbano.

Uno spazio a geometria quasi fusiforme che sembra fuori scala rispetto al ritmo della trama dell’abitato. Un abitato che ha la chiesa principale, stranamente, priva di sacrato ed è posta su un alto podio.

Osservandone la forma e l’ubicazione rispetto all’intero nucleo urbano appare evidente che quello spazio è originato da scopi diversi da quelli consueti finalizzati alla relazione sociale e/o a quella devozionale.

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Un altro particolare singolare è il nome della via che lo percorre: via Luca della Robbia. Come mai quello spazio viene intitolato al più grande ceramista del lontano Rinascimento fiorentino? Perché questo tributo all’inventore della tecnica della “terracotta invetrata” con la quale il Toscano imprigionò per la prima volta nella ceramica le sue famose statue delle Madonne con bambino e realizzò le formelle per Filippo Brunelleschi nell’Ospedale degli Innocenti e nella Cappella Pazzi?

Tutto si chiarisce quando ci si accorge che sul margine est dell’insolito vuoto urbano, quasi in prossimità del fiume Montagnareale, si trova il rudere di una vecchia fornace. L’unica sopravvissuta di un sistema di tante fornaci che ne punteggiava il corso fino alla foce, dove tutt’ora sono palesi alcune tracce.

Le fornaci di Patti, le immagini della memoria

E’ chiaro che siamo nell’area dove per secoli si è prodotta una rinomata ceramica di domestico utilizzo: vasi, pentole, tegami, piatti, brocche, lumiere ed ogni tipo di contenitore per cibo e liquidi come le ogghialore e i bummmuli: i primi per contenere l’olio; i secondi per contenere l’acqua dentro i quali si manteneva sempre fresca come fosse in un termos.

Le ceramiche pattesi erano famose alla pari delle “Stoviglie di VIetri” e delle “Terraglie di Livorno”, soprattutto le “Pentole Bianche e Rosse di Marina di Patti”. Queste erano prodotte con la tecnica della “terracotta invetrata”: un dato che spiegherebbe il riferimento topografico al grande artista del quattrocento.

Quest’area urbana fu un fiorente centro di produzione di maioliche e terracotte la cui tradizione vantava origini remote e che per secoli, fino all’avvento della plastica, fu il perno dell’economia del borgo molto più della pesca. La commercializzazione anche esogena all’isola di questi prodotti giungeva in molte località del bacino del Mar Tirreno.

Questa intenza attività ceramista in quel contesto urbano spiega anche l’assenza di un sacrato afferente alla chiesa madre, dovuta alla vitale necessità di occupare ogni spazio aperto per essiccare le terrecotte, persino quello davanti la medesima.

Così quella strana forma di vuoto urbano che ci ha attirati per la sua singolarità era lo “Stazzo”, l’area dove le opere di tutti i ceramisti, dopo essere state modellate, “stazionavano” ad asciugare prima di essere infornate. Questo indizio ci dice che per molto tempo la produzione fu notevole.

Questo spazio è un esempio non raro di spazio urbano concepito generato per una funzione produttiva specifica.

Ogni funzione, ogni attività dell’uomo, modella lo spazio necessario affinchè questa si svolga nel migliore dei modi. Queste modellazioni quasi sempre obbediscono a processi umani che sono spesso all’origine di ogni città, di ogni nucleo urbano, e che costituiscono anche il fondamento di ogni architettura. In urbanistica come in architettura vale sempre quanto asseriva Protagora: l’uomo (le sue esigenze, le sue attività) è la misura di tutte le cose, di quelle che sono perché sono, quelle che non sono perché non sono (le idee, il pensiero).

In merito all’intitolazione della via sarebbe interessante sapere se trattasi di un antico toponimo o di una recente istituzione: nel primo caso tradurrebbe una lusinghiera ambizione artigianale ispirata al meglio dell’arte ceramica italiana; nel secondo un lodevole tentativo di resistere alla cancellazione di un forte Genius loci.

In ogni caso questa intitolazione a Luca della Robbia rafforza il valore culturale e sociale del contesto urbano e soprattutto quello della fornace ormai diruta spiegando quanto sia urgente restituire al più presto questo elemento, ultimo segno tangibile di un processo produttivo che a lungo fu il marchio identitario della cittadina rivierasca. Una restituzione che se ben narrata potrà far risorgere quanto cancellato.

L’ampio spazio, oggi destinato a un banale parcheggio, era dunque uno spazio funzionale alle fornaci. Esso veniva costantemente occupato dalle forme prodotte dai torni dei ceramisti, messe ad asciugare prima di essere cotte.

Le fornaci e i laboratori erano ordinati a schiera e si affacciavano direttamente sullo slargo generando una singolare tipologia edilizia concepita per essere compatibile con tutte le fasi della lavorazione della ceramica.

Un caso paradigmatico di perfetto equilibrio tra forma architettonica e funzione, in questo caso produttiva, che sorprende per la sua ergonomicità e per equilibrata composizione degli involucri.

Lo spazio descritto era parte integrate di detto equilibrio trasformando la tipologia edilizia in una vera e propria tipologia urbana, unica nel suo genere, ed era complementare a quelle tipologie, le quali senza di esso non avrebbero funzionato.

Un esempio perfetto di simbiosi funzionale tra spazio urbano e spazio architettonico la cui alta qualità commuove. 

Ognuna di queste singolari fornaci, tra loro affiancate, era costituita da un corpo centrale (che conteneva il forno) a due elevazioni, dal quale svettava il camino, segnato al piano terra dall’ingresso al vano dal quale si alimentava il fuoco. A questo corpo centrale erano aggregati due corpi laterali simmetrici, sempre a due elevazioni, che contenevano al piano primo i locali di carica del forno ai quali si giungeva salendo per due profferli (scale esterne) simmetrici ed aderenti al prospetto e, al piano terra con ingresso sottostante il ballatoio comune ai profferli vi era l’ingresso dei laboratori dei vasai, i quali dopo aver modellato i loro pezzi li mettevano ad essiccare all’esterno ponendoli su assi di legno che occupavano tutto l’attuale slargo.

Appena il materiale si asciugava veniva trasportato, attraverso i profferli, nelle stanze superiori per essere caricato nel forno o tornava nei laboratori per la decorazione e le rifiniture.

Un’architettura industriale di rara e struggente bellezza che per secoli ha caratterizzato il paesaggio urbano del borgo ed è stata la sua cifra estetica prevalente.

Oggi quell’armonia architettonica non esiste più, cancellata dalla modernità e dalla sua plastica. Tristemente abbattuta per far posto ad una comoda e redditizia architettura residenziale afasica. La stessa che caratterizza tutto il ricambio moderno di molte delle piccole città siciliane, espressione di un raggiunto benessere che ha traghettato una comunità come quella pattese, figlia di una secolare tradizione ormai obsoleta, in un nuovo mondo radicalmente diverso dal precedente. Un mondo dove il confort e le speculazioni diventano valori dominanti.

Dei segni identitari di quel luogo ancora resistono miracolosamente, imponendosi al linguaggio afasico di ricambio e migliorando le moderne ergonomie residenziali i poetici profferli simmetrici. Essi si riscontrano, riproposti, in alcune delle nuove architetture che marginano la nuova piazza, come una sorta di Genius loci resiliente.

Uno spazio che vivendolo oggi, colmo di automobili e marginato da inclassificabili architetture, ci spinge a chiederci, parafrasando Alessandro Manzoni,: Ma siamo certi che tutto ciò che viene dopo è progresso?

Le fornaci di Patti, la bellezza di una architettura industriale distrutta dalla modernità

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