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Giovedì, 25 Aprile 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Architetto, la globalizzazione della professione tra bandi e precetti neo liberisti

Si confonde la moda con lo stile e si resta prigionieri di norme e bandi che omologano e non tengono conto dei contesti cui sono destinati. Il risultato è un inverno della creatività in attesa di una nuova stagione che guardi alle esigenze dell’uomo come misura e scopo

Il sostantivo Architetto è un nome composto da due radici semantiche di origine greca: “Arckè” che significa eccellenza o principio e “Tekton” che significa costruttore o artefice. Un tempo l’architetto era colui che aveva il compito di realizzare cose eccellenti, di costruire principi, di rispondere alle necessità primarie o principali dell’uomo. L’architetto era l’unico ad avere gli strumenti culturali e tecnici per ideare il futuro e costruirlo bene. Oggi questa figura è stata trasformata in mero esecutore di dogmi detti da altri.

La progettazione secondo i bandi

Norme e bandi, con atteggiamenti omologanti, dettano ovunque linee guida che non hanno nulla di risolutivo per i contesti cui sono destinati. Quasi sempre si tratta di astrazioni teoriche, mal pensate, che asetticamente senza alcuna flessibilità progettuale, applicativa o di adattamento territoriale, vanno rigidamente eseguite pena la perdita di vitali finanziamenti.

Questi precetti appartengono a paradigmi urbanistici e progettuali di concezione neoliberista che impongono criteri omologhi per ogni luogo.  Ed è come voler risolvere i problemi con le stesse mentalità che ne sono la causa.

Queste indicazioni progettuali vincolanti, quasi sempre senza episteme, nonostante la loro difficile applicazione nella realtà, sono diventati dei dogmi indiscussi ed indiscutibili. Si debbono applicare nonostante emergano in tutta evidenza, là dove sono stati applicati, i loro esiti negativi o quantomeno infruttuosi.

L’approccio non è mai multidisciplinare, quasi sempre la progettazione delle complessità dei nostri territori è affrontata in maniera mono focale. Ciò destina all’insuccesso ogni intervento.

I bandi di finanziamento non offrono tempi e modalità tali da poter mettere in atto delle vere, e non fittizie, pratiche di progettazione partecipata, mancando di coinvolgere realmente i destinatari e di soddisfare i bisogni, veri e non presunti, dei cittadini e dei territori.

Le soluzioni somministrate, specie nelle aree interne, nelle piccole città e nei nuclei urbani d’antica fondazione (borghi e centri storici), nonostante le linee guida sbandierano principi di coesione sociale, si rivelano quasi sempre sconnesse dai bisogni reali della gente e senza visione strategica.

Nonostante ciò i taumaturghi del pensiero dominante propongono, come sacerdoti di un’unica Chiesa, le stesse identiche soluzioni, che sono quasi sempre di bassa soglia:

Puntare sul turismo; alberghi diffusi; gli eco musei; la valorizzazione di povere tipicità locali; case ad un euro; city farm; street art; qualche ridondante e folklorica soluzione scopiazzata qua e là; la riproposizione goffa ed enfatica di culture distortamente vernacolari che più che attrarre il turista compiacciono in modo diseducativo gli aspetti più deleteri del localismo e del campanilismo autoreferenziale.

Nessuno, poi, va a verificare se questi mantra abbiano realmente funzionato altrove, se queste idee siano adattabili al contesto destinato, se ci sono i presupposti affinchè queste siano compatibili con le caratteristiche del territorio e con le sue potenzialità. Si dà per scontato che se lo dice l’Europa funzionano di sicuro. Come quelle finte verità date unanimemente per vere perchè: “l’ha detto la televisione”.

Basta che queste idee improbabili siano inserite nelle linee guida dei bandi e che il Mainstreem li promulghi con enfasi, che esse assurgono al rango di principi scientifici e tecnici di altissimo livello. Così, acriticamente, vengono adottate da architetti e urbanisti che li propongono come soluzioni prodigiose.

Soluzioni che sulle prime sembrano una panacea, poiché l’esito nefasto di queste ricette non è riscontrabile nel breve periodo.

Nel breve periodo si fa ciò che serve per campare: rendicontare le spese, averle approvate ed incassare gli emolumenti. Degli effetti risolutivi delle soluzioni adottate nei tempi relativamente futuri nessuno se ne cura. Nessuno accerta che queste idee di terza mano non risolvono affatto le allarmanti perdite demografiche, lo spopolamento di queste realtà che procede in caduta libera. Nessuno vede che non sostengono alcun disagio socio culturale e non attivano alcuna efficienza economica.

L’obbiettivo è convincere il finanziatore mettendosi sulla sua lunghezza d’onda per ottenere l’aaggiuduzazione delle somme. Per il resto basta raccontare bene la conquista del finanziamento. Ciò assolve dalla responsabilità morali relative ai disastri futuri che da quelle soluzioni balzane, inevitabilmente, deriveranno.

L’architetto non crea più, imita

Oggi l’architetto difficilmente realizza il nuovo, spesso promulga “mode”. Si fa interprete di precetti quasi mai dettati da altri architetti o urbanisti, da sociologi, antropologhi, filosofi, etc., bensì da politici, burocrati, finanzieri ed economisti, latori di quel verbo neoliberista che guarda al mercato come unica unità di misura dell’esistenza umana.

Queste figure hanno pianificato e impacchettato una serie di pseudo principi che perseguono fini inconfessabili mascherati da farneticanti dottrine aporistiche, dove l’errore viene spacciato per dato incontrovertibile ed assoluto. Il senso è che nulla si può fare di meglio delle loro ricette.

Nonostante gli evidenti esiti negativi costoro tengono i cordoni della borsa e si rifiutano pregiudizialmente di prendere minimamente in considerazione altre eventuali soluzioni, anche se queste manifestano palesi strutture di senso, anzi di buon senso e di manifesta competenza.

Ebbene, in questo scenario l’architetto assume il ruolo gregario di esecutore materiale, di sacerdote di una religione fanatica, caratterizzata da una grave afasia d’idee.

Con questo nuovo paradigma professionale non c’è spazio per idee progettuali che risolvono le complessità da affrontare. L’architetto non è più colui che fabbrica, che inventa il nuovo, che dà vita a nuove forme, che crea nuovi mondi, bensì colui che imita.

L’architetto non è più colui che produce idee proprie ma colui che riproduce idee altrui, senza mai verificare se ciò che ripropone altrove sia stato efficace e risolutivo, e soprattutto senza verificare l’adattabilità di queste idee standard ai particolari obiettivi progettuali.

Oggi le soluzioni di urbanisti ed architetti sono omologate ad una professione globalizzata. Debbono aderire al bando non alla realtà.

Così l’architetto non inventa più, copia.

Copia dai bandi, copi da internet, copia dai social. Egli propone ciò che è di moda.

Questo modus operandi garantisce solo l’evanescenza delle soluzioni che propone, poiché le mode sono effimere mentre le architetture sono strutture che tendono ad essere perenni. Sono elementi che marcano definitivamente il territorio e lo spazio che modellano, condizionando a lungo la vita di chi li abita.

L’architetto oggi confonde la moda con lo stile, senza rendersi conto che imitare significa copiare l’apparenza delle cose non il loro significato, o il loro senso.

Ecco perché tutto è piatto e inanimato. L’anima la esprime solo l’idea originale. E le grandi assenti sono proprio le idee primigenie.

In questo inverno della creatività dove vagolano smarrite l’inventiva e l’originalità sensata, siamo in attesa di vedere scintille di pensiero che si trasformino in forme nuove ed in efficaci soluzioni mai viste, figlie di processi culturali che hanno un’anima e che guardano alle esigenze dell’uomo come misura e scopo e non al contenuto dei bandi e alle procedure.

Siamo dentro un’aberrante eterogenesi dei fini.

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Architetto, la globalizzazione della professione tra bandi e precetti neo liberisti

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