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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Dall'orgasmatic ai luoghi virtuali, come rischia di cambiare l'architettura dopo il covid

Dopo la pandemia, la postmodernità globalizzante maturerà in qualcos’altro, in altri modi di vivere radicalmente diversi da quelli attuali, in altri modi di pensare e di esercitare i sentimenti che rischiano di spazzare via anche le camere da letto e gli spazi di relazione. Scenari e incubi che mettono in difficoltà progettisti senza più orizzonti

L’architettura nasce con la comparsa del primo uomo. Il quale non viene accolto bene dalla Natura che si rivela, per le sue caratteristiche biologiche, matrigna e ostile. Piogge, animali feroci, sole, freddo, neve, vento, calore, etc..

Per sopravvivere egli ha dovuto realizzare ripari sicuri diversamente si sarebbe estinto. Ed è nel momento in cui concepì l’idea di un luogo protetto che nacque l’Architettura.

L’uomo primitivo, incompatibile con le condizioni della Natura, per sopravvivere dovette cominciare a domarla o quantomeno tentarci. Da subito cominciò a modellare spazi inediti più compatibili ai propri bisogni. Lo fece servendosi di ciò che la natura stessa gli offriva (pietre, alberi, foglie, etc.), così creò la prima capanna e il primo recinto.

Egli per proteggersi dovette ordinare il caos della Natura, regimentarlo, geometrizzarlo, per evitare il rischio di soccombere a suoi elementi.

L’architettura fu inventata dall’uomo per mettersi al sicuro dai rischi naturali

Da questa necessità esistenziale ebbe inizio un percorso di elaborazione di spazi artificiali che nel tempo ha dato luogo ad un evolversi di forme, materiali, tecniche ed espressività semantica.

L’architettura è costruita con elementi (materiali) che appartengono alla Natura. Le sue forme si ispirano ad essa seppur con processi creativi ed epistemologici di varia genesi a seconda dei contesti storici e della loro evoluzione culturale. Essa è un manufatto artificiale creato con elementi naturali e ideato facendo riferimento ai medesimi.

Non vi è idea di forma in architettura che viene dal nulla

Ogni forma architettonica contiene sempre un processo di elaborazione sofisticato che esula dalla tecnica con la quale materialmente essa si realizza. Non vi è particolare difficoltà nella realizzazione dell’Architettura, né nell’applicare le sempre più sofisticate tecnologie o i più avanzati materiali. Non sono questi i fattori che forniscono le piacevoli o spiacevoli percezioni dell’Architettura.

La suggestione che ci colpisce davanti ad una bella architettura dipende solo dalla capacità dell’architetto di trasformare uno spazio in modo armonico ed equilibrato e ciò nasce da un processo d’idee, di saperi, di conoscenza, di percorsi culturali singoli e collettivi, che l’architetto riesce a cogliere e plasticizzare nella sintesi di una forma: sta in questo la complessità dell’architettura.

La capacità di compiere questa sintesi rende l’architetto una figura tecnica che per operare deve avvalersi di una conoscenza omnia, di una grande capacità di assorbire processi culturali esterni a lui. Egli è colui che crea nuovi mondi, totalmente inediti e progrediti (quando crea l’opera d’arte) generandoli da esperienze culturali e intellettuali che provengono da altri mondi esistenti che egli elabora attraverso la dimensione del sensibile.

L’architetto produce percezioni attraverso l’elaborazione di altre percezioni. Egli un tempo era quello che oggi chiameremmo, con una definizione abusata, un mediatore culturale, colui che traduceva quel che accadeva, che interpretava con più lucidità quel che succedeva realmente ed esponeva con più chiarezza quanto verosimilmente avrebbe riservato il domani.

Gli architetti che furono da sempre interpreti del futuro, in questo tragico momento della storia dell’uomo, che vede la traumatica transazione antropologica (ormai da tempo avviata) dall’uomo analogico all’uomo digitale (nato dal 1989 in poi), che entro 20 anni si compirà del tutto (quando gli analogici diverranno tutti classe dirigente), non ha orizzonti da indicare.

Con lo shock dell’attuale emergenza sanitaria, che più che i corpi ha minato le menti, l’unica certezza è che niente potrà essere come prima, ma al tempo stesso niente possiamo immaginare di come potrà essere il futuro.

Quel che è certo che la postmodernità globalizzante maturerà in qualcos’altro, in altri modi di vivere radicalmente diversi da quelli attuali, in altri modi di pensare e di esercitare i sentimenti.

Si svilupperanno probabilmente altri valori umani, altre etiche, altre morali che oggi non riusciamo a mettere a fuoco. Non sappiamo che ne sarà dell’antico senso della solidarietà, di quello della giustizia, di valori come la dignità, la competenza, la verità. Non sappiamo cosa sarà dei sentimenti affettivi e di quelli amorosi.

In questo probabile scenario la domanda è: quale sarà il ruolo dell’Architettura nel post covid?

La fisicità delle sue forme che l’hanno sempre caratterizzata potrà ancora assumere valore per un uomo che si avvia ad essere sempre più smaterializzato e virtualizzato?

Quanto la digitalizzazione può privare l’uomo dei suoi rapporti con gli spazi fisici modellati dall’Architettura? In tempi di transumanesimo egli avrà ancora, come un tempo, lo stesso forte bisogno primordiale di sopravvivenza che lo portava alla ricerca di una casa così come da sempre concepita?

Avrà bisogno ancora di spazi di relazione come le architetture vocate all’incontro, alla socializzazione, alla crescita culturale, al sapere, alla cura, alla salute fisica e mentale, all’intimità, come: piazze, parchi, bar, ristoranti, scuole, teatri, cinema, poli culturali, ospedali, impianti sportivi, … case?

Probabilmente no! Ormai da tempo comincia a non occupare più fisicamente i luoghi dell’emozione, dell’incontro, della conoscenza, della comprensione, dell’esperienza e della percezione.

Questi luoghi saranno sempre più virtuali ed egli sarà sempre più connesso virtualmente con essi. Luoghi virtuali che saranno un’altra cosa e che non si chiameranno più piazza, teatro, scuola, cinema, etc..

Così man mano non avrà più bisogno nemmeno degli spazi intimi, quelli dove da sempre ha esercitato i sentimenti affettivi, la famiglia, l’amicizia, l’amore.

Come e dove farà crescere e curerà i suoi figli? Come e dove si articolerà e si svolgerà la sua vita intima? Come sarà distribuita la sua abitazione? Di quali nuove ergonomie interne necessiterà e di quali farà a meno per sopravvenuta obsolescenza?

Come gli architetti dovranno ripensare le ergonomie abitative del futuro?

Serviranno ancora le cucine dove la famiglia ritrovava il suo fulcro, i saloni dove si ricevevano cordialmente gli amici, le verande del relax, i balconi per affacciarsi e guardare la strada, le librerie dove conservare il sapere, gli studi, le stanze per il bricolage dove passare il tempo domestico?

E le camere da letto, dove l’uomo da sempre ha sublimato i sentimenti amorosi e gli innamoramenti, diverranno anch’esse obsolete? Riuscirà ancora ad innamorarsi? Ad innamorarsi di un essere umano a cuore battente, visto che è sempre più affascinato dai robot? O forse userà davvero "L'orgasmatic"? Quella doccia chimica con la quale, nel film "Il dormiglione", di Woody Allen, del 1973, gli uomini del futuro soddisfacevano gli impulsi sessuali.

Gli architetti, a seguito di questa epocale e apocalittica crisi, non possono prevedere e concepire nulla dell’Architettura del futuro, poiché non sappiamo ancora come sarà, come vivrà, cosa saprà e cosa penserà l’uomo di domani.

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