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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Edifici a specchio, quando l'architetto non “riflette”

Non comunicano con l’esterno. Impermeabili, espulsivi, omologati, sono quegli organismi edilizi come il Palacultura che plasticizzano la peggiore globalizzazione. Come ogni invasore sottraggono senza dare

Da molto tempo si assiste ad una progressiva sottrazione dell’identità simbolica delle città provocata da talune nuove architetture.

Architetture che non comunicano con l’esterno, impermeabili, espulsive, riflettenti. Architetture che non dialogano con il contesto che le accoglie. Le loro facciate riflettono l’ambiente circostante restando neutrali, quasi a volere prendere le distanze da quanto le circonda.

Sono le architetture delle pareti vetrate, le architetture a specchio: una banale semplificazione della complessità del costruire che si avvale di una facile tecnologia che banalizza gli involucri. Non vi è città che ne sia indenne. A Messina ve ne sono molti esempi, così come in molte città grandi e piccole della provincia.

Edifici amorfi, anonimi, uniformi, insipidi, senza alcuna identità, senza caratteristiche, senza connotati distintivi.

Le architetture della pstmodernità

Sono architetture nocive ai luoghi in cui s’insediano. Se l’ambiente e degradato amplificano il degrado, se l’ambiente è bello si vestono malamente della sua bellezza deformandola in modo grottesco sulle loro superfici riflettenti a seconda della luce e dell’ora della giornata, praticamente la scimmiottano e la ridicolizzano. Hanno la dirompente forza di rendere irreali realtà urbane secolari.

Questo è ciò che accade, ormai da tempo, anche a Messina nel dialogo tra la Chiesa normanno-sveva dell’Immacolata, uno dei simboli più marcati dell’identità cittadina, e il palazzo della Cultura. Nelle belle giornate di sole percorrendo il viale Boccetta si vede l’antico tempio, riflesso sulla facciata a specchio del dirimpettaio Palacultura, diventare una marmellata di riflessi, di frammenti scomposti, un blob psichedelico di realtà e antichità, un caleidoscopio irritante del passato. 

Ciò accade ovunque, in moltissimi luoghi identitari di moltissime città. Ovunque si assiste al dilagare di queste architetture riflettenti la cui cifra è caratterizzata da un’assoluta povertà espressiva, la cui semantica è priva di specifici riferimenti culturali.

Sono le architetture della postmodernità. Organismi edilizi che plasticizzano in modo icastico i significati della globalizzazione.

Si tratta di architetture senza simboli, dai lessici afasici, ultronee al contesto: una sorta d’invasione aliena.

Involucri che non trasmettono mai l’idea della loro destinazione d’uso. Non esternano in modo esplicito la funzione che in essi si svolge. All’interno dei loro involucri amorfi si può trovare una caserma militare o un placido condominio, gli uffici di un ministero o una fabbrica di mattonelle.

Gli edifici della postmodernità sono omologati. Uffici, residenze, palazzi istituzionali, tribunali, etc., sono tutti caratterizzati da un magma linguistico alessico e carente di simboli che non trasmette significati identitari o di senso: una scuola, un ospedale, un ufficio postale, sono, tra loro, indistinguibili: nulla, da fuori, accenna a queste specificità.

Sono strutture edilizie non specializzate, i loro interni sono flessibili adattabili ad ogni cambio di destinazione, una flessibilità funzionale alla massimizzazione della rendita fondiaria. Sono la lucida metafora plastica della flessibilità sociale, della flessibilità del lavoro, che impone il neoliberismo.

Sono architetture che non evocano alcuna memoria e non attivano alcun processo d’identificazione. Sono architetture senz’anima che non determinano e mai determineranno Genius loci e carattere collettivo. In queste opere non si percepisce identità, non si afferra il senso, non s’intuisce il loro scopo sociale. Negano la loro appartenenza a qualsiasi categoria riconducibile a codici appartenenti al territorio in cui si insediano.

Sono come quelle persone che indossano gli occhiali da sole per nascondere gli occhi e non svelare l’anima.

Sono edifici mimetici, architetture che esprimono pienamente il pensiero che li ha concepiti: una categoria basata sulla frode (quella dell’aziendalismo, della commercializzazione, del marketing, delle banche, etc.). Sono espressione di una categoria che ha qualcosa da nascondere.

Fanno tornare alla mente Franco Battiato che cantava: c’è chi si mette gli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero.

Sono architetture che dissimulano, che non raccontano la verità. Sono le architetture della post-verità. Sono la plasticizzazione di quel pernicioso atteggiamento mentale, ormai dilagante, che non vede la verità come un valore ma come uno strumento flessibile da adattare a seconda dello scopo.

Sono involucri che non veicolano valori, anzi, come un arrogante invasore parodiano quelli del contesto che li accoglie, e come ogni invasore sottraggono... senza dare.

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