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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Dopo due anni di emergenza tornano a riempirsi i balconi della Vara

I parapetti che si affacciano lungo il percorso sono tornati ad assumere il loro notevole significato sociale. Una metafora del privilegio e dei privilegiati. Ecco perchè

A Messina torna la processione della Vara dopo due anni di emergenza sanitaria. Si ripete uno degli archetipi più fondanti dell’identità messinese di cui la città è stata privata per due anni a causa dell’emergenza sanitaria.

E’ tornato quel tradizionale fiume in piena di fedeli ad inondare la via Garibaldi e la via I Settembre fino alla piazza del Duomo.

Dopo due ferragosti sono tornati anche coloro che assiepati sui balconi godono dall’alto la processione e lo sciamare della folla penitente.

Così i balconi che si affacciano lungo il percorso sono tornati ad assumere il loro notevole significato sociale. Una metafora del privilegio e dei privilegiati, di chi a vario titolo conquista una rilevanza sociale e di chi si compiace di essere ammesso come ospite a quello spettacolo.

Tra relax e vezzi

Il balcone è lo spazio esterno degli immobili che non sono a diretto contatto con l’esterno. Un elemento orizzontale portante che sporge dal muro di un edificio, formando un ripiano accessibile attraverso una o più porte-finestre, consentendo la visione dall’alto di strade e spazi urbani.  Ai suoi margini è posta una struttura di contenimento: il parapetto che può essere in muratura, a balaustrata, a ringhiera metallica o di altro materiale e di varie fogge.

I balconi della Vara tra storia, metafore e architettura

Ogni forma generata dall’architettura obbedisce ad uno scopo, ad una funzione, ad un motivo, basta osservare bene e conoscere i luoghi e le storia, ciò vale anche per i balconi che sono elementi che caratterizzano gli involucri architettonici.

L’esempio più classico, che conferma questa regola assiomatica dell’architettura, è quello dei balconi con i parapetti a petto d’oca: ringhiere panciute che in origine furono concepite per permettere al sesso femminile di frequentare gli sbalzi esterni. Dal XVI secolo e fino al XIX le donne indossavano gonne voluminose la cui ampiezza era costituita da una sottostante intelaiatura resa rigida da stecche di osso di balena dette verdugali o guardinfanti. Una moda che in origine servì per dissimulare le gravidanze e gli eccessi adiposi, conferendo al corpo delle donne un’imponenza regale, un’imponenza ieratica che esigeva luoghi dove essere ostentata, ed il balcone era uno di questi.

Stare al balcone era anche vezzo tipico delle nobildonne. Lo stare al balcone ad ammirare la strada ed essere ammirati è sempre stato un privilegio aristocratico e il balcone era quell’elemento architettonico che consentiva di stare una spanna sopra gli altri a guardare il passeggio o la fatica che brulicava sotto.

Questo sbalzo era l’elemento che metteva in comunicazione con l’esterno i palazzi patrizi e le dimore di chi aveva potere sulla comunità. Era, ed è ancor oggi, il luogo dove si riuniscono le autorità cittadine al passaggio del santo. In certe realtà spesso risulta impalpabile quanto sia il potere ad onorare il sacro e non viceversa.

Resta comunque il fatto che ovunque nel meridione d’Italia stare sul balcone al passaggio del santo delinea una posizione privilegiata rispetto agli altri processionanti. Una posizione metaforicamente più vicina ai favori del santo. Atteggiamento che suggestiona in modo efficace le classi subalterne.

Il balcone è anche il luogo del relax: “A noialtri napoletani, toglierci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinunzierei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato.” Questo è l’incipit del monologo sul piacere di stare al balcone che Eduardo fa dire a Pasquale Lojacono in “Questi Fantasmi”.

La "vetrina" di via Garibaldi

La via Garibaldi di Messina è una vetrina, di quello che fu, il discutibile eclettismo messinese. Quella cifra stilistica, che ha marcato l’estetica della città risorta dopo il 1908. Una cifra reazionaria che molto ha condizionato il gusto dei messinesi, e non solo.

Tornando sul tema delle soprelevazioni degli anni cinquanta del secolo scorso, già affrontato in precedenti occasioni, la via Garibaldi vede quasi tutti i palazzi della ricostruzione essere stati soprelevati a partire dal secondo dopoguerra.

In quel periodo la città ebbe una notevole crescita demografica che indusse la necessità di far spazio alla nuova crescita antropica e così si soprelevarono i palazzi.

Questo fenomeno, a guardare i palazzi messinesi, appare lampante. Quasi tutti gli organismi architettonici, ricadenti all’interno della perimetrazione del Piano Borzì, eretti dal 1911 al 1940, presentano delle stratificazioni, a volte improprie, a volte coerenti (poche), che ci narrano tutte le dinamiche civili, sociali ed economiche di cui sono autentica espressione. Ci raccontano di un tessuto sociale che dopo gli anni ’50 subì una grande trasformazione, ci narrano di una nuova classe sociale e politica, meno borghese e più liberale che prese le redini della città.

Grazie al fenomeno delle soprelevazioni, nei prospetti cittadini si possono osservare, uno sull’altro, due modi di vivere, che furono nel bene e nel male protagonisti del XX secolo: la società dei primi decenni del ‘900 radicalmente diversa da quella del secondo dopo guerra.

Queste dinamiche sono ben sintetizzate in un palazzo (uno tra i tanti, preso a caso) che sorge sulla via Garibaldi (vedi foto).

Si tratta di un palazzo realizzato dopo gli anni venti del XX secolo caratterizzato da un’espressività convenzionalmente eclettica.  Insomma, per non farla lunga, il progettista ha fatto onestamente il suo mestiere proponendo una cifra eclettica ordinaria, mantenendo il profilo basso con di sobrio esercizio di stile.

L’involucro presenta un prospetto che esprime una composizione simmetrica, ripartita da paraste di ordine maggiore che dividono il prospetto principale in tre campi al cui interno vi è un’ordinata scansione tra pieni e vuoti.

L’apparato decorativo è blando ed interpreta persino qualche verbo modernista, declinato in modo lieve, quasi impercettibile. Le finestre sono incorniciate e i balconi contenuti nell’aggetto e nella estensione sono sorretti da mensoloni a voluta. Ci fermiamo qui senza perderci in minuziose e scolastiche descrizioni contemplative, non vale la pena. Quel che conta è che siamo di fronte ad un linguaggio coerente, un’espressività architettonica dignitosa, seppur provinciale. Un’architettura che nel panorama cittadino si era ritaglia il suo modesto sfoggio, prima che soprelevazione, totalmente ultronea, ne annientasse ogni espressività.

La nuova stratificazione non presenta alcuna coerenza con la parte sottostante, se non nella prosecuzione delle paraste. Ogni suo elemento è votato al pragmatismo più prosaico. Si notano imbotti che insultano violentemente le leziose cornici sottostanti e tapparelle che mortificano feralmente le gentili e discrete persiane dei piani inferiori. L’unica cifra che si intravede è quella dell’”essenziale a basso costo”.

Quel che più colpisce è il brutale taglio orizzontale del balcone. Ampio, grande, lungo per tutta la larghezza del prospetto, che gira l’angolo avvolgendo tutto il perimetro visibile dell’edificio. Un elemento eccessivo che a primo impatto appare ingiustificato. Un tratto orizzontale che esclude radicalmente la parte sottostante e lo fa in modo drammaticamente netto ed invasivo. Qualcosa di simile ad un vasto e brutto cappello che copre il bel volto di chi lo indossa.

Guardandolo viene da pensare: ma che se ne fanno di tutto questo aggetto così profondo e lungo, quasi come un camminamento di guardia dove può starci un plotone di sentinelle?

Ma in architettura nessun elemento è dettato semplicemente dal caso

Ma quella apparente insensatezza ha una giustificazione, in architettura nessun elemento è dettato semplicemente dal caso. Tutto ha una ragione epistemologica, anche l’elemento più banale è espressione di un motivo, di un’esigenza, di una dinamica spesso prosaica. L’architettura racconta, non solo la bellezza, ma anche la banalità del brutto e il prosaicismo dell’utile.

Anche se ad una prima osservazione, l’eccessivo e deturpante sbalzo, fornisce una mancata percezione di senso, questa disarmonia un senso c’è l’ha. Il senso sta in una precisa funzione, intuibile solo se si conosce cosa accade nella strada sottostante ad ogni ferragosto.

Tutto quel grande balcone, che corre lungo il perimetro, serve per uno scopo preciso! Ha una specifica funzione predeterminata. Una funzione alla quale chi lo ha realizzato o commissionato probabilmente ha dato molta importanza.

Esso è stato realizzato per godere della processione della Vara accogliendo più ospiti possibili. Non c’è alta spiegazione plausibile. Quella forma rappresenta l’idea di voler stare in alto in un’occasione in cui tutta la comunità si raccoglie. In quel momento chi vi si affaccia domina la processione, e quindi la folla. Un beneficio esclusivo che offrono, od offrivano, anche ai loro selezionati ospiti.

Quello sbalzo è il luogo comune in cui si aggrega chi domina, o dominava, o ha tentato di dominare la comunità. E’ Il luogo dove per un momento si ostenta una posizione sociale senza dubbio maggiorente.

Quello, come tanti altri, è il balcone della Vara! La sua forma così incongrua è uno status symbol.

Non è il balcone del godimento, dell’affaccio, è il balcone dell’ostentazione di un privilegio.

Il balcone del relax di Lojacono può essere misurato, quello della Vara deve essere capiente: la sua dimensione è direttamente proporzionata all’importanza sociale di chi lo detiene.

Quel balcone, così importante per la nostra cultura, che per due anni è apparso inutilmente grande, torna ad avere lo scopo per cui è stato concepito: Ammirare dall’alto il tripudio della folla.

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