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Giovedì, 25 Aprile 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

L’architettura è un’idea che prende forma. È una storia che si plasticizza. Le città sono fatte di architetture, di palazzi, di monumenti, di spazi modellati dall’architettura. Le città sono la forma della Storia. “Quando visitiamo una città lo sguardo percorre le vie come pagine scritte” I. Calvino. Se la scrittura racconta il pensiero dell’uomo la città narra come egli vive o ha vissuto

La forma delle idee

C'erano una volta le costardelle: storia, segreti e curiosità di un "mito" culinario dello Stretto

Era la pietanza di pesce povera del messinese il cui odore fritto invadeva i quartieri extraurbani. I banchetti erano ricercatissimi anche dalla borghesia che abitava il centro città

La costardella per i messinesi è un pesce spada in minore. Un autentico archetipo gastronomico. Un pesce azzurro di piccola taglia (15 -30 cm) che abbondava nelle acque dove si specchia la Fata Morgana. In altre realtà marinare viene poco considerato, ad esso prediligono le più pregiate aguglie, evitando persino di pescarlo o usandolo solo come esca per pesci grandi.

Il nome scientifico è Scomberesox saurus, un pesce pelagico (vive distante dalla costa) e non abbocca all’amo. Viene catturato solo con delle speciali reti di circuizioni chiamate nell’alto tirreno costaullara o costaullarella, da questa deriva la probabile radice etimologica. Questa rete dalle nostre parti si chiama Cianciolo o Saccoleva usata anche per la cattura delle acciughe e del pesce azzurro in genere che vive in banchi.

L’aspetto è simile all’aguglia, da questa si distingue per il rostro più corto e per il colore della lisca bianco diversamente da quello dell’aguglia che è di colore verde-azzurro. 

Un tempo, non molto lontano, veniva abbondantemente consumato dai messinesi. Nelle sere d’agosto le costardelle appena catturate risalivano le aste fluviali fino ai quartieri popolari nei cartocci che le famiglie di ritorno dal mare, o gli uomini tornando dal lavoro, compravano nelle improvvisate bancarelle allestite direttamente dai pescatori che le avevano pescate qualche ora prima, sul ciglio basso dei viali Annunziata, Giostra, Gravitelli, Europa, Gazzi, etc.

Cronaca

Quasi al vespro i pescatori con il loro “bannio” intercettavano gli avventori proponendo insieme alle costardelle l’ultimo odore di mare e di salsedine della giornata, che al calar del sole dava un senso di freschezza alle afose giornate estive.

In questi presidi estemporanei le famiglie si fermavano ad acquistare la quantità necessaria per fare delle cene estive gioiose e speciali dove il protagonista era questo negletto ed economico pesce azzurro grazie al quale si celebravano dei veri e propri convivi da re sulle terrazze razionaliste delle case popolari, sui balconi, nelle verandine o nei giardinetti dei piani terra, perché le costardelle si debbono cucinare all’aperto. Questi momenti dionisiaci compensavano talune svantaggiate condizioni sociali.

In quelle sere agostane l’odore ammaliante della frittura di pesce invadeva, a basso costo, i quartieri e rioni extraurbani. Questi banchetti lungo i viali erano ricercatissimi anche dalla borghesia che abitava il centro della città, poiché le costardelle raramente si trovavano la mattina nelle pescherie. La costardella era cibo economico alla portata delle tasche di coloro che non potevano permettersi di mangiare mupi, pescespada, tonno, dentici, ricciole, etc. Era la pietanza di pesce povera del messinese omologa alle sarde dei i palermitani e ai masculini dei catanesi, con qualche pregio in più. 

All’arrivo delle costardelle le donne di casa allestivano le padelle e i fuochi e cominciavano a sviscerare i pesci mentre i mariti tagliavano le cipolle di Tropea immergendole in pirofile colme d’acqua e ghiaccio addizionata con aceto, che ponevano in più parti del desco. L’aceto toglieva l’asperità al sapore della cipolla e la rendeva dolce e fresca al palato allo scopo di lavare quest’ultimo dall’eccessiva sapidità della frittura di pesce. Così le padelle colme di olio bollente cominciavano ad accogliere le costardelle che appena immerse si contorcevano sfrigolando. Prima di assumere un aspetto dorato e diventare squisitamente croccanti queste lanciavano nell’aria improvvisi vendicativi dardi che sacrificavano sempre con piccole ustioni le mani o le braccia del friggitore.

Tant’è che l’umorismo popolare, davanti alle ustioni dell’interlocutore suole ironicamente chiedere: “chi fù, friisti i custadeddi?” (cosa ti è successo? hai forse fritto le costardelle?)

Il pesce fritto finalmente giungeva in tavola e si dava inizio ad uno dei riti più tipici del popolo peloritano: le costardelle venivano prese con le mani e addentate calde, e dopo ognuno di questi prelibatissimi bocconi, ecco una presa di cipolla fresca dolce e acidula al tempo stesso che sgrassava la bocca e richiamava subito un sorso di vino.

La liturgia di quei pasti prevedeva nell’ordine: una costardella fritta cosparsa di sale, un boccone di cipolla e un sorso di vino, ad oltranza. Un’apoteosi per il palato. Il banchetto si chiudeva con l’immancabile fetta di dolce cocomero rosso del Faro.

Quelle cene restano nei ricordi mitiche ed indelebili. Retrospettivamente possiamo dire che si trattava di un piccolo privilegio da aristocratici. Un trionfo dei sensi così diffusamente praticato che con il tempo ha assunto il valore di un elemento identitario.

A riprova di come le risorse naturali specifiche di un territorio siano elementi che generano nel popolo che lo abita le sue tradizioni, i suoi usi e i suoi valori morali ed etici e al tempo stesso ne modellano il carattere. Quelli che provocano intense piacevolezze, come nel caso delle costardelle, diventano identità archetipiche.

La cattura della costardella nello Stretto era una pesca epica. Avveniva al largo quando le barche avvistavano la risalita a pelo d’acqua di banchi di costardelle aggredite dai delfini che ne vanno ghiotti. Il mare cominciava a ribollire. Le fere le assalivano dal basso costringendole a fior d’acqua e le accerchiavano con un carosello di salti. Queste per difendersi subito facevano il “pallone” (si infittivano nel tentativo di dare l’impressione di essere un unico grande pesce e mettere in fuga il predatore). 

Ed ecco che in questo frangente in cui i delfini verificavano la simulazione e le costardelle quasi emergevano alla ricerca di una via di fuga, giungeva il secondo predatore: l’uomo, che lanciava in mare la sua rete circuendo e catturando repentinamente l’intero “pallone”. Un furto con destrezza a man bassa che privava i delfini del loro quasi sicuro pasto. La pesca delle costardelle quando avviene è sempre copiosa, esse non si possono pescare una alla volta come avviene per le aguglie.

Dopo la cattura i pescatori, quasi come un rito propiziatorio, spargevano in mare alcune cassette di costardelle ad appannaggio dei delfini, una sorta di ringraziamento che volesse compensare il furto eseguito e placare eventuali ritorsioni dell’intelligentissimo mammifero.

Un gesto che traduce quel timore atavico dei pescatori dello Stretto nei confronti dei Delfini che ha fondamento in quella lotta eterna, spesso impari, che si perpetua nello “Scill’e Cariddi”, tra i cariddoti di Stefano D’Arrigo e la Fera, contro la quale non basta nemmeno il coraggio del mitico di Ndria Cambria.

Il delfino è un pesce d’intelligenza superiore che da sempre ha messo in pericolo le esistenze dei pescatori rendendole grame. La Fera aspettava che le reti si riempissero e cominciassero ad essere issate per intervenire a saccheggiarle versando il pescato in mare e facendone un facile pasto a discapito degli afflitti pescatori. 

Nel caso della pesca delle costardelle i ruoli si invertono, è il pescatore a sfruttare e approfittare della caccia dei delfini e non più viceversa.

Questa lotta estenuante che diventa epica è magistralmente narrata in tutta la sua drammaticità in uno dei più grandi romanzi del ‘900: “Horcynus Orca”. 

La condizione affranta di quei cariddoti è rappresentata in molte opere di uno dei più grandi pittori del socialismo reale: Giuseppe Migneco, dove questi rende icastica e struggente la condizione dei pescatori dello Stretto.

In queste grandi opere è espressa (con parole e immagini) la metafora che contiene quasi tutte le sfumature dell’identità dei messinesi autoctoni, quelle migliori, almeno.

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