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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Mico della Boccetta, storia e opere di un poeta messinese scomodo anche da morto

Per decenni con i suoi versi si è scagliato con ironia contro potere, ingiustizie, mediocrità e incompetenza. Ha esortato a reagire a soprusi e vessazioni una comunità che oggi lo ripaga con l'oblìò. Ritratto del "Pasquino" dello Stretto figlio di una città che stenta ancora a riconoscere i suoi talenti

A Palermo Petru Fudduni e Peppe Schiera, a Bagheria il grande Ignazio Buttitta, a Catania Nino Martoglio e Micio Tempio per non tacere dell’immenso Paolo Rapisardi, a Trapani Giuseppe Marco Calvino, etc..

Ognuno con diversa grandezza letteraria ma tutti a castigare i costumi con i loro versi satirici.

Poeti di denuncia, poeti contro. Contro il potere, le ingiustizie, le angherie, la mediocrità, l’incompetenza. Hanno esortato le loro comunità a reagire contro soprusi, iniquità e vessazioni riuscendo a muovere le coscienze fino ad attivare processi culturali progressisti e libertari che presto sono divenuti caratteri identitari dei loro popoli.

Il Pasquino di Messina

Anche Messina ha avuto il suo Pasquino. Un poeta vernacolare scomodo a cui la critica non ha dato alcuno spazio. Scomparso nel 2019 e già caduto nell’oblio. I versi di Mico della Boccetta, pseudonimo di Domenico Borgia, erano impegno civile e denuncia ad oltranza senza disattendere nulla e senza risparmiare nessuno.

Nel 2021 Mico avrebbe compiuto 100 anni ma i messinesi non hanno ancora sentito il bisogno di ricordarlo, di riservargli una giusta celebrazione.

Egli fu l’antidoto di quell’abusato vizio dell’autoreferenzialità infondata e perniciosa che distingue il carattere dei messinesi. Per Messina fu una sorta di controllore di volo. Un riflettore sempre acceso su quel rapporto perverso tra un potere scaltro e l’accidia dei cittadini peloritani.

La sua indignazione civile e morale puntava a riscattare i messinesi dalla ormai secolare vulgata che li paragona ai “buddaci: Serranus Scriba, una specie ittica comunemente chiamato Sciarrano o Boccaccia, capace di inghiottire di tutto, la cui bocca larga e testa grande metaforizzano la trasformazione antropologica che i messinesi subirono dopo il 1908, passando da popolo unanimemente riconosciuto per il suo carattere reattivo e fermamente deciso contro soprusi e ingiustizie, al punto da essere appellato come “misca moffe”, a gente dall’anima senza pretese, creduloni, ciarlieri, disimpegnati e inconcludenti.

I sonetti diventati scherzucci

A loro rivolgeva spesso i suoi sonetti con paterna disperazione. Sonetti che amava chiamare “scherzucci”, (definizione che ai molti sembrava spinta da una falsa modestia, viceversa era un riferimento a Giuseppe Giusti, il grande poeta toscano impegnato con i suoi versi contro il potere che opprimeva la libertà nell’Italia della prima metà del XIX secolo. Celebre il suo “Re Travicello”, metafora del potere inetto e incapace “nel suo regno con molto fracasso; le teste di legno fan sempre del chiasso” ).

Mico, parlando delle sue opere così si esprimeva:

Questi scherzucci non piaceranno a molti, dato che toccano argomenti vari come è nella natura delle satire, punzecchiano un po' tutti; specialmente non piaceranno ai buddaci”.

Anch’egli come Giusti, Trilussa, Belli, Baffo e i siciliani sopra citati, si scagliò sempre contro i tanti re travicelli che in riva allo Stretto si distinguono per la loro incapacità nel ricoprire taluni ruoli e nell’esercitare in modo insufficiente e clientelare il loro potere.

Di lui così scrisse Graziella Lombardo nella prefazione dell’unica raccolta delle sue opere edita dal settimanale Centonove del febbraio del 2001: “A rileggere le poesie di Mico della Boccetta ci si ritrova davanti a una antologia della vita cittadina, che meglio di tante emeroteche racconta le vicissitudini politiche e sociali della città di Messina”.

Con la sua opera Mico delinea con lucidità implacabile il profilo antropologico del messinese tipo e dei suoi archetipi e ne denuncia indignato i tratti e le caratteristiche peggiori. In merito, nel 1993 scrisse L’ignavu (l’ignavo) ove esprime tutta la sua irritazione verso i modi di fare e di essere dei suoi concittadini.

Havi ‘a buccazza larga quant’un puzzu,

‘u cirriveddu, havi  ‘i nà chiattidda,

‘u culu granni, ‘a testa picciridda,

parra semprì a spropositu e a muzzu,

è apaticu, piggjiatu di sciroccu,

cci piaciunu ‘i bracioli e u piscistoccu.

Amanti d’u rumùru, un fracassuni,

manchia chili di calia atturràta,

lassa muntagni ‘i scocci a menz’a strata,

e pensa sulamenti a lu palluni.

Non merita né stima e né rispettu,

tant’è muccapastizzi, iganviu, inettu..

Non leggi mai giurnàli,

non vòta un chiovu ppi la so città,

si nni strafùtti di la società,

non avi nèrbu, abulicu, asociali,

ntà politica, poi, è puddicinèdda,

chi gira e vota comu bannirèdda.

E chiude stigmatizzando il comportamento del messinese con queste ultime strofe:

E tu, jèttiti ‘i chiàttu, lassa fari,

pensa sulu alla panza e ‘o piscistoccu,

non reagiri contra lu sciroccu,

non diri nenti contra ‘u malaffàri,

non diri nenti ai figghi di bagascia,

si un veru pecuruni, a testa bascia.

Versi atroci quanto autentici che giustificò con il suo solito candore “vorrebbero essere una sferzata contro quei messinesi che non hanno nessun amore per la città; contro quei buddaci che non si interessano nel sociale, che votano solo per un favore ricevuto, che si occupano soltanto di pallone e lasciano che la città rimanga fra le ultime”.

Un pungolo contro apatici e buddaci

Mico usa lo scudiscio della satira con cognizione di causa, ma non si limita solo alla critica, egli esorta il messinese ad alzare la testa, a drizzare la schiena, e lo fa con un sonetto che è tra i più clamorosi. Il 27 giugno del 1998 (egli datava puntigliosamente ogni sua poesia) scrive: Lillu Ruspigghiti!

Un pezzo drammatico con il quale si rivolge a Lillo (l’archetipo antropologico del messinese) esprimendogli tutta la sua disperata indignazione ed esortandolo al cambiamento, ad una risolutiva ribellione.

Lillù, ruspigghiti, pigghia cuscenza,

làssala fùttiri la tò indulenza

mòviti, nnàchiti, non fari ‘u fissa

làssili pèrdiri sciroccu e “lissa”

non fari ‘u stupidu e ‘u strafuttenti,

si no cunvinciti non cancia nenti

tutti ti sfrùttunu, nuddu ti cridi,

non sì attendibili e tu lu vidi

poiché tu, apaticu, non cunti nenti,

ssì fissa crònicu e strafuttènti

pirchì tu, ‘mpennula, si inconcludenti,

fai sulu tràficu, ma fatti, nenti

Lilluzzu, lèggili libri e giurnàli:

và, istruisciti, si no, animali tu resti;

e a mmàtula pensi ‘i canciari

‘a Res Pubblica: Nenti da fari

Non fari ‘u solitu cianci minèstra,

non stari, immobili, alla finèstra…

Scegli e discrimina l’amici veri,

e caccia, elimina, ‘i lipardèri.

Lillu, Ruspigghiti!! Si no, Missina,

va, inesorabili, alla ruvina.

Un testamento morale rivolto alla sua gente, che amava come un padre severo e inflessibile che sa che per far il bene dei figli non deve indulgere su nessuna delle loro mancanze.

Mico ha spesso illustrato con efficaci metafore le grandi asimmetrie sociali di cui la città è gravida a discapito dei più deboli e dei diseredati. Con quest’ultimi era intransigente, voleva che reagissero, che prendessero consapevolezza della loro condizione di clientes sotto patronus ed insorgessero con auspicati moti di liberazione.

Sul questo tema risulta clamoroso il sonetto scritto nell’agosto del 2000: Babbi e Nabbabbi

Messina parimi città indiana, indecifrabili, assurda, strana,

Ci sunnu ‘i  nobili, ricchi nabbabbi, e tanti “Paria”, minchiunu e babbi.

Ci su i ricchissimi ch’hanno ‘i villini, palazzi splendidi, ampi piscini,

Ch’hannu li rèdini di la città e cci campunu comu pascià.

Ci sunnu i paria disprizzati, senza finanzia, disoccupati

Chi stannu ai margini, jintra ‘i baracchi ‘nta li favelas, cartuni e sacchi

E chi supportunu supra la schina la casta nobili ch’è di Missina.

Nuddu li calcula, nuddu li penza, pirch’è notoria la so indolenza.

Su scecchi ‘i rèdina ‘a testa bascia, nuddu propositu, nuddu scatascia.

E n’apprufittunù di ciò ‘i nababbi e i babbi restunu sempri cchiu babbi

E si tu paria non ti ruspigghi, ancora scòppuli ‘ntò cozzu pigghi.

E resti sùccubi di ‘sti patruni ricchi, egocentrici e mappiuni.

Egli fu spesso profetico, aveva già messo in guardia dalle lusinghe del finto progresso dell’attualità con un vaticinio lungimirante, avvertendoci, per dirla con Alessandro Manzoni, che non tutto ciò che viene dopo è progresso. Egli sul tema esortava i suoi messinesi a riflettere sui futuri benefici di quello che all’inizio del XXI secolo già si intravedeva e che oggi viviamo con intenso dramma:

Ma, chistu è lu progressu, ‘un c’è chi fari:

annàmu avanti a càauci e spimtuni,

e l’omu, ohimè, non fa chi peggiuràri

e sempri cchiù divènta pecurùni

A scienza, amicu ‘dduma làmpi e lumi

e annàmu avàanti comu … aranci ‘i ciumi

La battaglia contro il ponte

Grande fu la sua battaglia politica contro la realizzazione del Ponte sullo Stretto sintetizzata in una silloge il cui titolo parafrasava l’opera del grande drammaturgo Artur Miller, intitolata “’Nà smicciata d’u….Ponti! (uno sguardo dal ponte). Nell’ambito del movimento che lottava contro la realizzazione dei questa grande opera, che avrebbe contaminato un paesaggio unico e magico oltre a violare fortemente e in modo irreversibile un equilibrio ecologico e un ambiente naturale raro, la voce di Mico è stata la più alta ed incisiva.

Memorabile un suo sonetto che contiene la lapidaria strofa che sintetizza con grande efficacia metaforica l’effetto nefasto che l’opera avrebbe su quell’incantevole paesaggio:

U ponti saria tràggica, immensa cicatrici, comu ‘nu sfreggiu orribili ‘nta faccia di un ‘attrici,..”

Anche su questo tema il suo sprone alla ribellione verso un sopruso, stavolta operato non solo sui cittadini ma sul più grande elemento identitario del paesaggio messinese unico al mondo, fu veemente, quasi a ritmo di carica:

‘st’immensa cosa inutili, ‘sta cosa sconvilgenti,

chist’opira ciclopica, chi servi a nuddu e a nenti

Picciuli, sulu, picculi,  jittati a mmuzzu, a mari,

picchì, quasi certissimu, non si potrà attuari.

I suli chi l’appoggiunu sunnu ‘na minoranza,

e sunnu semprì i soliti manciuni a crepapanza

Moviti in forza pòpulu, non ti fari ingannàri:

PARRA, DISCUTI, SCRIVILU. STU’ PONTI NON S’HA FARI!

Valutato retrospettivamente quel Moviti in forza pòpulu esprime nella maniera più icastica tutto il suo imperituro impegno civile. La sua continua esortazione morale al sollevamento popolare stavolta è indirizzata contro l’ennesimo scempio alla sua terra.

La sua indignazione verso l’immobilità e l’eccessiva sopportazione dei messinesi è travolgente, tant’è che rivolgendosi ai suoi concittadini illustra in modo impeccabile quanto la realizzazione del Ponte aggraverebbe la loro già grave condizione gregaria:

E tù, buddaci lòffiu, spittànnu ‘u manufattu, chi fai? Subisci, e ‘o solitu ti jetti sempre i ‘i chiattu?

Curri, proponi, nnàchiti, non stari ddà impotenti, travàgghia, pàrra, mòviti contra ‘st’incompetenti;

contra ‘sta genti àvida chi agisci, e chi s’aspètta vantaggi a tirribbilia sulu pp’a so sacchètta;

Vantaggi miliardarii, ppi iddi, e sulu a jiddi, e a tìa, minchiunu, restunu l’occhi chini ‘i jariddi.

Dal ponte al pescestocco

Mico, avverte i suoi concittadini, che anche nella vicenda del Ponte, come sempre, i ricchi e potenti faranno man bassa lasciando il popolo nell’estrema povertà senza sostentamenti. Una condizione che si manifesta nell’immagine di quella povertà assoluta di quei messinesi che da oltre un secolo vivono in tuguri indecenti (i villaggi baraccati) in cui per moltissimo tempo non hanno avuto nemmeno l’acqua per rimuovere ai bimbi le cispe dagli occhi.

Anche nell’affrontare temi ecumenici, come il Pescestocco, egli trova l’occasione per un’ulteriore critica pungente verso l’ingenuità stolta dei messinesi e approfitta per la solita denuncia sociale. E’ il caso del celebre sonetto Sciroccu, Malanova e Piscistoccu

Lu piscistoccu sapidu,

a ghiotta cucinatu,

la carni di lu pòviru,

‘na vota era chiamatu,

Ma ora è custusissimu,

a pisu d’oru vali,

ed è perciò cchiù facili

truvari lu caviali

E allu buddaci inegnuu,

chi stoccu cchiù non trova,

ci resta, ppi disgrazia,

sciroccu e malanova.

Facendo riferimento ad altri due archetipi messinesi come: il vento di scirocco che funesta la città ionizzando, secondo alcuni studiosi, eccessivamente l’aria ed inducendo in chi vi vive una condizione biologica semi vegetale che caratterizza i messinesi chiamata misteriosamente Lissa; e la Malanova, una sorta di anatema implacabile al quale fatalmente i messinesi attribuiscono la responsabilità dei loro errori e fallimenti; Mico spiega la dimensione tragicamente inconcludente dell’esistenza peloritana.

Scirocco e Malanova, come spiega l’antropologo Sergio Todesco “..sono intimamente connessi ..e  si propongono come singolare cifra culturale ed esistenziale. Una sorta di saudade “de noartri” che non ha prodotto, nè mai produrrà alcun Fernando Pessoa, alcuna Amàlia Rodriques”

Uno sguardo sagace e brillante sul mondo

Conobbi Mico della Boccetta molti anni fa durante una mostra al Palacultura. Lo avvicinai e gli espressi tutto il mio apprezzamento verso le sue opere e la mia gratitudine come cittadino. Egli come suo solito minimizzò. Discutemmo a lungo e diventammo amici. Lasciandoci gli rappresentai il mio rammarico di non poter più leggere le sue poesie mordaci con la frequenza di un tempo, quando venivano pubblicava settimanalmente sul Soldo e su Centonove. Egli sorrise e per risposta mi chiese con discrezione garbata l’indirizzo di casa. Da quel momento ebbi l’onore di ricevere quasi ogni settimana una sua missiva contenente le sue opere che egli giornalmente scriveva. Scoprii che quello era il suo modo di comunicare con una cerchia ristretta di amici che apprezzavano le sue opere. Una condivisione ristretta ed esclusiva del suo pensiero che per me fu un onore.

Dopo la chiusura del Soldo e di Centonove non ebbe più visibilità nei media locali e quelle missive assunsero sempre più l’aria di dispacci carbonari che egli stesso faceva recapitare a pochi amici o a coloro che condividevano il suo punto di vista sulla città.

Quel punto di vista spesso profetico

Con quelle lettere che contenevano sempre un nutrito numero di sue poesie, Mico mi forniva il suo critico punto di vista sul mondo, sempre sagace, brillante e profetico. Lo faceva con la sua macchina da scrivere Olivetti lettera 32 invece del computer e con le sue buste bianche francobollate invece delle email.

L’invio delle sue lettere, che conservo gelosamente tra le reliquie del mio studio, avevano innescato nelle mie abitudini un piacevole ed intimo rituale. Ogni sabato mattina dopo la colazione o prima di pranzo mi gustavo in poltrona quelli che Mico chiamava scherzucci. La sua pungente satira era per me sempre spunto di profonda riflessione e critica. I suoi sonetti lasciavano molta amarezza nel mio animo ma al tempo stesso mi ricordavano di non essere solo nel deserto di quel qualunquismo omologato e omologante che ogni giorno ci assale.

L’ultima volta che ho avuto il privilegio di incontrarlo fu nel 2015 durante un convegno alla Biblioteca dei Cappuccini dove entrambi eravamo i relatori. Aveva già compiuto 94 anni e le sue lucidità mentale e agilità di pensiero illuminarono l’intera serata.

Fino a qualche settimana prima della sua morte Mico mi ha donato il piacere consueto di ricevere la sua settimanale missiva con su scritto in gentile calligrafia che sembrava essere attentamente personalizzata: “Pregiatissimo architetto (per esteso) Carmelo Celona”. Quelle parole erano la forma di una dolce antica cortesia, di quella coerenza ed affidabilità commovente e istruttiva che caratterizzava gli uomini di un tempo. Di quegli Uomini della stessa generazione di Mico, alcuni dei quali ho avuto il piacere di frequentare e dai quali ho imparato a vivere più che dai libri di scuola e dalla formazione professionale.

Messina città senza memoria

Ora Mico è finito nell’oblio, in quel buco nero che è la memoria della città. Nessuno lo ricorda più. Messina dei suoi pochi poeti autoctoni predilige e celebra solo gli encomiasti come Felice Bisazza, adulatore del potere politico e di quello spirituale del suo tempo. Poeta dal “romanticismo moralistico e devozionale” che con la sua opera rese omaggio prima ai Borboni, poi agli uomini e ai fatti dell'unificazione italiana e sempre alla chiesa. A costui la città ha intitolato una delle vie del centro e un liceo. Di lui così si legge sulla Treccani: “il Bisazza si ritraeva da ogni manifestazione di sia pur cauto liberalismo, e per ragioni di pratica opportunità consegna la sua esistenza esclusivamente agli studi, all'insegnamento, alle pratiche religiose. L'estro e la maturazione letteraria sacrificava troppo spesso alla prolissa e prosaica narrazione in versi, alla compiaciuta pateticità, alla insistente e banale proclamazione della sua fede religiosa e dei suoi principî morali”.  Ecco chi valorizza l’ambiente peloritano.

Oppure lascia spazio e visibilità a poeti minori che per esser tali debbono abusare del vernacolo o a quelli che pur di talento con la loro sensibilità acritica aiutano la retorica della messinesità, il luogo comune delle biddizze cittadine di un tempo, senza chiedersi mai perché queste biddizze si sono perdute e chi li avrebbe dissipate.

Offre ampia visibilità alla inconsapevole ed innocente sensibilità poetica della dolcissima Maria Costa facendola assurgere al ruolo di vate dell’identità cittadina incontrastato e incontrastabile.

Nel dibattito culturale cittadino di Mico della Boccetta non c’è traccia. Del resto come potrebbero il potere e i suoi sudditi, da egli sempre castigati, valorizzarlo e amarlo? Sarebbe come ammettere le sue verità. Ai cittadini, prima ancora che al potere, egli è indigesto. La vittima non ama sentirsi dire la verità sulla sua condizione, è più facile raccontarle una lusinghiera bugia rendendola protagonista del suo dramma che spiegarle e farle accettare che è stata ingannata e danneggiata.

Nel dramma della vanagloriosa messinesità, falso e retorico archetipo civilmente zavorrante, c’è anche la sindrome di Stoccolma. Così di un Paquino come Mico della Boccetta solo alcuni conservano un vago ricordo che si sbiadirà sempre più fino a scomparire o a trasformarsi nella figura di un matto, di un disallineato, come direbbero oggi i padroni del vapore, di uno scomodo personaggio, forse un outsider…da non prendere sul serio.

Dunque di valorizzare la figura e l’opera di Mico non se ne parla neppure, anche se la città ci guadagnerebbe in termini di valore culturale assoluto, uscendo da quella bolla in cui l’unica misura di senso è l’autoreferenzialità, il familismo, il clientelismo e la comparagine.

Quanto è scomodo chi si indigna contro il potere

In riva allo Stretto si celebra solo chi è comodo, chi è parente, compare o cliens. Mico non essendo stato nulla di tutto questo è relegato nell’oblio da una mediocrazia che obnubila tutto ciò che gli crea frustrazione, che obietta sul suo ruolo, che denuncia. Specie se lo fa con l’arma efficacie dell’ironia e della satira.

Perchè a Messina non si scherza! Non si fa autocritica, non si fa sarcasmo verso la città e i cittadini, ci si allinea e basta, diversamente l’oblio è garantito.  Nessun Pasquino, nessun Martoglio, nessun Micio Tempio o Peppe Fudduni, figurasi un Rapisardi o un Buttitta, ha mai generato e mai genererà. Solo i mansueti e mistici Bisazza o la tenera e commovente Maria Costa apologeta di una Messina perfetta che forse non c’è stata mai, la cui idealizzazione l’ha aiutata a elaborare il lutto di una sottrazione di diritti civili e di soprusi di cui anch’essa è stata vittima. La sua poesia romantica e autoeferenziale è servita più a lei per superare una vita che l’ha vista vivere nel disagio e ai margini di quella società che oggi la celebra e si identifica nella sua poesia mansueta e inconsapevole, che all’identità culturale messinese.

Mentre sul poeta che si indignava contro il potere e che esortava il popolo messinese a reagire castigandone l’ignavia cade una coltre di silenzio e il suo Moviti in forza pòpulu si oblitera per sempre.

Comunque per quei messinesi che cercano sempre un soffio di liberazione gli “Scherzucci” di Mico restano forse le istigazioni più efficaci alla rivolta nel deserto di chi vive o è costretto a vivere in quel limbo purgatoriale in cui la città guazza indolente, in quelle sabbie mobili del “cù ti potta!?”…”cu tu fa fari!?.

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