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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Il Palazzo dell’Inps a Messina e la sua Galleria, dietro le quinte di un progetto controverso e di un architetto per tutte le stagioni

Un collegamento urbano mal concepito dal professionista camaleontico e dal Comune che a suo tempo non richiese la servitù pubblica. La storia di Gino Peressutti, sempre allineato al potere che lo tenne prosaicamente sempre in auge

L’Architettura Manierista fu un’esperienza espressiva eretica perché ruppe gli schemi del canone classico e di quello rinascimentale dando vita ad una nuova creatività architettonica, libera da ogni ortodossia sintattica e lessicale, contravvenendo al rigore dei Brunelleschi, Alberti, Bramante, etc., creando un forte contrasto tra la norma e la deroga.

Si trattò di un’improvvisazione operata sui sacri canoni classici, una sorta di jazz dell’architettura, messa in atto da geni come: Michelangelo, che spezza il timpano; Andrea Palladio, che inventa l’ordine maggiore; Sebastiano Serlio, che inventa una nuova trifora; Giulio Romano, che interrompe i pilastri e le colonne con conci regolari; Giorgio Vasari che usa la suggestione del chiaro scuro; etc.

Il palazzo dell'Inps e la galleria

Considerati questi significati ideologici, la riproposizione dell’architettura manierista nel Palazzo dell’INPS di Messina, ultimato e inaugurato nel 1926, visto il contesto storico e le vicende che narreremo in seguito, risulta tutt’altro che creativo, innovativo e ribelle.

Quest’architettura, dalla composizione simmetrica e regolare, esprime una semantica che riecheggia un larvato manierismo alla Giulio Romano: paraste interrotti da blocchi, ordine maggiore al piano primo e secondo, soluzioni angolari tipiche del manierismo lombardo veneto con angoli concavi con finte fontane, Il piano terra bugnato con ricorsi regolari e paraste interrotte da blocchi colmato da un marcapiano dentato. All’interno di quest’ultimo un ritmo regolare di finestre dalle monumentali cornici e dalle sproporzionate mensole poste in chiave con ai lati bottoni modernisti ed inferriate alle finestre come Palazzo Pitti. Le paraste dei piani superiori hanno mensole per capitelli a sostegno di una antisismica breve gronda. In detti piani le bucature presentano cornici con blocchi sormontate da timpani regolari spezzati, in alcuni casi prossimi agli ingressi, nel segmento orizzontale per far posto ad un imprecisato blasone. Leziose palmette ovunque. Ambigue trifore con il timpano con volute spezzate unite da cornucopie. L’uso eccessivo del simbolo della cornucopia funge da significante dell’opulenza dell’istituto di previdenza quasi a voler sottolineare che con lo Stato Sabaudo i soldi per l’assistenza sociale non sarebbero mancati.

Tutto è declinato secondo l’ordine dettato dall’accademia di Brera e dal suo rettore Camillo Boito teorico dell’architettura pubblica dell’Unità d’Italia, che prescriveva agli architetti di regime: un nuovo medievalismo radicale per compiacere i regionalismi del Centro Nord; al Centro Sud espressioni neoclassiche imbastardite dall’inserimento di verbi locali, dove questi avessero forti valenze identitarie. Il mandato era compiacere le tradizioni locali per farsi accettare, là dove non ci fossero marcate tradizioni sbalordire con ieratici neo classicismi o neo manierismi.

Il progettista

Del progetto fu incaricato l’architetto friulano, Gino Peressutti, nato a Gemona nel 1883 e morto a Padova nel 1940. Da non confondere con Enrico Peressutti del gruppo BBPR (Barbiano-Banfi-Peresutti-Rogers) o con il padre Giovan Battista Peressutti anch’egli valente architetto che operò prevalentemente in Romania.

Gino Peressutti fu singolare figura di architetto, sempre allineato al potere, il tipico professionista camaleontico dall’estetica trasformista, che lo tenne prosaicamente sempre in auge.

Inizia la sua carriera appena ventiduenne, la sua prima importante opera è il Collegio Antoninum di Padova commissionatogli dai Padri Gesuiti nel 1905. In questa occasione riesce ad imporre, con grinta da innovatore, ai seguaci di Loyola, uno stile modernista declinato secondo la moda corrente.  

Qualche anno dopo comincia la sua collaborazione con l’influente imprenditore edile Giovanbattista Della Marina, suo concittadino, per la cui famiglia progetterà “Palazzo Della Marina” eretto proprio davanti al Duomo di Gemona, in un moderato stile Decò.  Presto con il noto imprenditore gemonese opererà definitivamente nella vicina Padova dove insieme fonderanno la società APE (Anonima Padovana Edilizia) con la quale eseguirà una serie di operazioni immobiliari che cambieranno il volto della città veneta.

Nel 1921 la società APE riceve l’incarico di redigere con il sostegno dell’ing. Paoletti, capo dell’ufficio tecnico del Comune (una sorta di omologo del collega messinese Luigi Borzì).  Un Piano di Risanamento e Ampliamento di alcuni quartieri all’interno delle mura (Santa Lucia, Ghetto e Vanzo). Il Piano, di cui Peressutti era il progettista, avrebbe dovuto accogliere circa 2000 famiglie dei ceti meno abbienti della città. Il progetto e la realizzazione disattesero in toto lo scopo. L’operazione urbanistica si trasformò in un vero e proprio sventramento che cancellò gran parte della città antica. Due interi quartieri di forte valenza identitaria vennero sostituiti con lussuose tipologie edilizie e ville signorili con verde privato i cui linguaggi importarono a Padova i nuovi verbi sabaudi declinati in un afasico neoeclettismo.

Questi quartieri, soprattutto quello di Vanzo, immersi nel verde furono denominati molto suggestivamente “quartieri giardino”. Nel quartiere di Vanzo Peressutti nel 1925 progettò e realizzò “Palazzo Esedra”: un blocco di alloggi curvilineo che caratterizzerà il disegno urbano del quartiere definendo una piazza  semicircolare lambita da viale Cadorna. Il palazzo neoeclettico è un campionario misurato di verbi classici e manieristi e improbabili cifre neomedievali.

Nonostante la frenetica attività padovana l’architetto gemonese e la sua società edile non perdono di vista la città di Messina, divenuta nel frattempo anch’essa laboratorio dell’urbanistica sabauda. In riva allo Stretto Peressutti propose una serie di progetti alla committenza privata e attraverso opportune entrature  ottenne dall’INPS l’incarico per la progettazione del Palazzo dell’istituto medesimo a Messina, di cui parleremo in seguito.

Intanto il Piano di Peressutti detto Piano APE, contrariamente al Piano Borzì, viene da subito molto criticato dall’ambiente culturale padovano e giudicato nel 1927 dal GUR (Gruppo Urbanisti Romani): “antitetico rispetto alle secolari tendenze di «gravitazione del centro» verso ovest, che distrugge inutilmente e stupidamente due quartieri, crea artificiosamente le condizioni per svalutare la monumentalità delle piazze centrali, ponendo le premesse per altre nuove demolizioni senza senso. Il piano è culturalmente obsoleto, irrispettoso di alcuni valori urbani sedimentati localmente”.

All’inizio degli anni trenta il nostro aderì con slancio alla causa fascista divenendo architetto del regime. Il suo registro estetico subì ancora una volta un cambiamento radicale.

Questo suo nuovo impegno ideologico gli fece fare un gran salto professionale. Mussolini gli conferì l’incarico per la realizzazione di una città del cinema. Così Gino Peressutti, tra il 1935 e il 1937, progettò e realizzò “La fabbrica dei sogni”, Cinecittà, la cui cifra stilistica risulta coerente con quel razionalismo voluto dal regime.

In quegli anni come presidente dell’APE avviò, sotto l’egida del regime, la riqualificazione di piazza Insurrezione a Padova. Un’altra speculazione edilizia. In quel luogo pregno di Genius loci egli demolisce i margini per realizzare quattro nuovi palazzi di cui due progettati da lui: il monumentale palazzo per Itala Pilsen, oggi Palazzo Cogi, in stile neo classico; il palazzo dell’INPS in stile imperialista. il palazzo della Camera di Commercio, anch’esso in stile razionalista, fu realizzato sul terzo lato della piazza, la progettazione di questo fu riservata ad un altro architetto di regime, Gino Miuzzo, che lavorerà sempre al soldo dell’APE. Fortunatamente la società ebbe una crisi finanziaria e l’operazione si interruppe. Un fallimento che salvò il quarto lato della piazza dove c’era la Casa dell’Angelo oggi sede del Gabinetto di Lettura. Un edificio medievale, che testimonia, come un baluardo, la vera identità del luogo cancellata dall’operato dal gemonese.

Ecco il personaggio: modernista in gioventù tanto da forzare l’orientamento classicista dei gesuiti padovani; poi neoclettico allineato al canone boitiano; quindi neomanierista a Messina con la committenza pubblica e neobarocco con quella privata; razionalista quando in Italia si impose il verbo futurista e ancor più quello neo imperialista tanto caro al Fascismo.

Egli è noto in riva allo Stretto per essere stato uno degli architetti passatisti che più di altri, durante la ricostruzione della città, si esercitò a compiacere quello che lui stesso chiamava “il gusto barocco dei messinesi”. Lui fu uno degli apologeti di quel laboratorio anacronistico che tanto sbalordì la comunità degli architetti e dei critici, chiamato Eclettismo Messinese, dopo il 1908.

Peressutti nel proporre e chiarire i contenuti del partito architettonico dell’isolato 307, nel tentativo di blandire la committenza, nella relazione allegata al progetto testualmente dichiara: “Architettonicamente si progetta assai sobrio in un barocco classicheggiante così come Messina, che incontra il gusto della popolazione”.

A quale popolazione si riferiva? E’ chiaro che cercava di irretire la Commissione Edilizia dell’epoca consapevole che essa aveva il mandato di favorire i linguaggi neo eclettici di marca sabauda.

Così si spiega perché il neo manierismo di Luigi Peresutti nel Palazzo dell’INPS di Messina, nel panorama del neoeclettimo dei primi decenni del XX secolo è tra i più piatti ed inespressivi. Se lo stile di riferimento si basava su una creativa articolazione dei canoni classici, questo si rivela una miscellanea inconsulta di stilemi manieristi atti solo a sbalordire un pubblico incolto, in una terra dove il rinascimento non c’è mai stato.

Certo il suo intento non era di sbalordire i messinesi autoctoni, che furono sempre popolo aggiornato, essendo stata la città, per secoli, “porto di mare”, bensì imbonire quella borghesia agraria e quel nuovo baronaggio provenienti dall’entroterra, ancorati a tradizioni estetiche vernacolari, espressioni di un mondo chiuso alla modernità e legato ad un privilegiato feudalismo sociale irrisolto, che si apprestava a prendere possesso della città.

Così il suo neo manierismo fu una sorta di abito strategico utile per essere sicuramente accettato dal nuovo ambiente messinese. Un espediente estetico di sicuro successo. Un trucco per far accettare la finta solennità di quel potere esogeno di cui lui era prezzolato ambasciatore.

Il prosaico architetto friulano ci fornisce un palazzo come tanti nella storia dell’architettura neoeclettica che resterà nel più oscuro anonimato. La sua architettura è stata solo un esercizio pragmatico del dettato boitiano senza infamia e senza lode. L’esecuzione di un mandato politico tout cort, senza eccessi, senza alcun elemento distintivo che lo facesse emergere tra gli edifici pubblici cittadini.

La galleria

L’unico elemento singolare dell’anacronistico organismo architettonico in trattazione è la lineare e breve galleria, che più propriamente si può chiamare passaggio. Un elemento che di fatto supplisce ad un marchiano errore urbanistico: quello del posizionamento della vera galleria cittadina (la Galleria Vittorio Emanuele III) che sarebbe dovuta sorgere in vece del Palazzo delle Poste, mettendo in comunicazione lo spazio del potere laico (piazza Antonello) con quello del potere spirituale (piazza Duomo).

Grazie a quest’ennesimo errore di Luigi Borzì, questo breve e lineare passaggio “condominiale” assume il ruolo di una “Galleria urbana” che unisce la piazza del Municipio con il retro della piazza del Duomo. Un passaggio con sbocchi poco significativi, ma pur sempre un collegamento, utile all’ergonomia urbana, che non era stato concepito dal Piano di ricostruzione post 1908.

L’intenzione fu meritevole, ma il dimensionamento e le caratteristiche si sono rilevate sterili, poiché il passaggio è privo di attrattori antropici capaci di favorire la sosta (come le botteghe). Esso è stato elaborato come un lussuoso corridoio condominiale coperto. Questo deficit funzionale nel tempo si è rilevato una vera e propria stenosi urbana. Comunque, meglio di niente.

Esso presenta ingressi differenziati: monumentale con cornice squadrata ad angoli smussati quello che dialoga con la piazza laica; solenne con arco a tutto sesto sostenuto da due colonne ioniche quello che si rivolge allo spazio religioso. Entrambi contengono un portico con volta a botte cassettonata alla maniera classica, tipo Basilica di Massenzio. All’interno prospettano solo semplici finestre e due ingressi, ognuno centrato per ogni lato. Solo questi sono affiancati da paraste in cifra barocchetto romano. Le superfici dei prospetti un tempo erano tutte decorate a buon fresco con grottesche che riprendevano il tema delle cornucopie. 

L’errore congenito del Peressutti fu di non aver fatto affacciare nella galleria quelle botteghe che l’avrebbero certamente vitalizzata. Quello del Comune di non averla mai pretesa in origine come passaggio pubblico, sicchè i margini d’intervento dell’Ente municipale adesso sono pochi. Ormai da anni vige in uno stato indecoroso, chiusa e adoperata come deposito polveroso di masserizie.

Nondimeno resta l’unico elemento che potenzialmente può migliorare la funzionalità del cuore del Centro Storico ottimizzando il dialogo fisico tra Chiesa e potere laico. Ciò testimonia con netta evidenza come durante la ricostruzione della città le due istituzioni con avessero una buona sintonia.

I conflitti tra lo Stato Sabaudo, che fortemente intervenne nella ricostruzione della città, e la Chiesa messinese si possono leggere nella diffusa assenza di quella osmosi tra gli spazi laici e quelli religiosi ricorrente in moltissime città italiane. Il riferimento è alla mancata previsione e realizzazione di sacrati nelle chiese messinesi. Quasi tutti gli ingressi delle chiese del centro storico, tranne il Duomo, sono tagliati dai profili stradali (vedi S. Giuliano; la chiesa del Carmine; S. Caterina; etc.).

I comparti e gli isolati del Piano Borzì, che circoscrivono rigidamente al loro interno molte chiese messinesi, non consentono alle medesime quel respiro tipico che le metterebbero in stretta relazione sociale e fisica con la città. Quelle chiese senza sacrato sono la forma di un’egemonia laica che purtroppo non condusse ad una visione progressista della città ma definì un ambiente marcatamente feudale, baronale, massonico, dove i rapporti tra i due poteri furono per molto tempo obliqui.

Si trattò di un potere egemone che preferì l’eclettismo al modernismo.

Quell’afasico Palazzo dell’INPS, che andrebbe rifunzionalizzato al più presto in un’

opportuna ergonomia urbana, è la forma di quel metaforico muro che la storia del novecento e la sua modernità trovarono a Messina, arrendendosi al medioevo.

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