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Giovedì, 28 Marzo 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Ostile alla città ma i “buddaci” gli dedicano il Palazzo: segreti e storia di Antonio Zanca, ingegnere avido e modesto

E' l'unico palazzo municipale intitolato al progettista, nonostante fosse poco famoso e importante. A lui è stata intestata l’architettura che più di ogni altra rappresenta la città. Un modo “omeopatico”, di alcune coscienze colpevoli, di nascondere con strumentali encomi le vere versioni inconfessabili della storia

Quell’istintivo quesito che sorge nella mente di chiunque alzi gli occhi per guardare il prospetto del Palazzo e si sofferma sui capitelli delle lesene che reggono il timpano e tutte le trabeazioni.

Ma che strani i capitelli di Palazzo Zanca?  

Il Palazzo è intitolato al suo progettista, cosa più unica che rara. Questa intitolazione vorrà dire qualcosa?

In genere i palazzi che rappresentano le città prendono il nome da fattori identitari della comunità, miti, vicende storiche, personaggi illustri, etc.. Quello di Catania progettato da Giovan Battista Vaccarini, si chiama “Palazzo degli Elefanti”, quello di Palermo “Palazzo Pretorio”, quello di Roma “Palazzo Senatorio” per quanto sia stato progettato da Michelangelo, lo stesso vale per quello di Firenze, con la torre magistrale di Arnolfo di Cambio, si chiama “Palazzo Vecchio o della Signoria”, o per “Palazzo Marino” a Milano, progettato dal grande Galeazzo Alessi, ed ancora “Palazzo Accursio” a Bologna intitolato ad uno dei padri della giurisprudenza italiana, etc..

Antonio Zanca fu un modesto ingegnere panormita (1861-1958), discepolo di Giuseppe Damiani Almeyda (eccentrico architetto noto per aver realizzato tra le tante opere il Teatro Politeama del capoluogo Siciliano) al quale, il 9 aprile 1912, il Commissario Salvatori, conferì incarico diretto per la progettazione del nuovo Municipio, dopo l’avvenuto annullamento del concorso di progettazione già vinto da uno dei più illustri architetti dell’epoca: Vincenzo Calderini, a quel tempo un’archistar, già autore del “Palazzaccio”, il Palazzo di Giustizia di Roma.

L’irritualità dell’incarico suscitò scandalo e indignazione nella stampa e nell’opinione pubblica messinese, generando molta insofferenza nell’ambiente dei progettisti e tanto imbarazzo in quello politico.

Antonio Zanca, in tempi brevissimi, redisse una prima ipotesi che prevedeva un partito architettonico dalla cifra modernista. Nonostante il clima di indignazione generale verso questa contorta operazione, i rapporti tra il Comune e Zanca restarono buoni e improntati alla piena collaborazione fino al 1915, quando la direzione dei lavori venne affidata ad un funzionario del Genio Civile, l’ing. Luigi Lo Cascio, e non a lo stesso progettista. Zanca contrariato da questa scelta cominciò ad adottare una strategia di forte deterrenza ricorrendo ad ostruzionismi di ogni genere, entrando apertamente in conflitto con l’ambiente comunale. Da quel momento il panormita si fece attore di una vicenda tecnica ed umana che apre gli occhi su un universo ancora inesplorato e svela moltissimo di certi oscuri meccanismi che si attivano nella realizzazione delle opere pubbliche ed aiuta ad orientarsi nei diverticoli della gestione burocratica degli stessi.

il nuovo Commissario Eduardo D’Arienzo, che dal 9 dicembre del 1919 aveva sostituito Salvatori, appena insediato, chiese a Zanca la modifica del partito architettonico chiedendogli espressamente di orientarla verso cifre più classiche. Il panormita, senza fare alcuno sforzo, propose, tout court, la stessa composizione architettonica che aveva adottato qualche anno prima nella realizzazione della sede del Banco di Sicilia di Caltanissetta, dove si possono riscontrare le identiche paraste e le stesse protomi leonine (scontata citazione di quelle rinvenute durante una campagna di scavi a Selinunte, nel 1910, che in quel periodo assunsero grande valore simbolico e identitario nell’ambiente panormita: erano le antefisse del maestoso Tempio di Era).

Dalla presentazione del progetto di variante al completamento dei lavori trascorsero ben 16 anni (1920-1936), durante i quali Zanca non smise mai le sue lamentazioni e le sue deterrenze che ritardarono non poco i lavori, rendendosi irreperibile e assentandosi per lunghi periodi a causa di frequenti malattie, problemi famigliari, fratture ed altri fantasiosi sedicenti gravi motivi di salute. Pretesti che appaiono molto bizzarri se si pensa che egli vivrà fino a 97 anni.  In pratica lui pretendeva di essere pagato per prestazioni che l’amministrazione non intendeva riconoscere. Così egli si eclissava impantanando il cronoprogramma dell’opera.

Ma chi era Zanca? Un taccagno, uno speculatore o uno sprovveduto che comunque finisce vittima di quel gioco perverso di politica e burocrazia che sin d’allora caratterizzava l’andamento delle opere pubbliche? E l’amministrazione? Gli rendeva la vita difficile per scaricarlo, era esigente per concussione, o cercava di contenere i danni derivanti dagli accordi che Zanca aveva imbastito con coloro che gli avevano conferito l’incarico?

Dell’articolata ed intrigante storia del progetto e della realizzazione del palazzo municipale narreremo in modo approfondito in una prossima occasione. Qui ci limitiamo a dire che dall’illuminante epistolario tra il progettista e la committenza emerge che i due soggetti, in questa vicenda, sono, come direbbero i concittadini dello stesso Zanca: “l’uohhju fitusu e a paredda spunnata”. Una metafora per rappresentare l’impossibilità di poter cucinare qualcosa di buono se si hanno olio rancido e tegami che lo disperdono.

Cosa certa è che per Antonio Zanca questo conflitto con l’ambiente comunale si trasforma in un risentimento verso la città e i suoi cittadini, dei quali dopo questa esperienza, si fa un’idea ben precisa, che fa scolpire in modo irriverente e plateale, sui capitelli delle facciate, suggerendo a chi si appresta ad entrare in quel palazzo il tipo di categoria di pensiero praticata da coloro che ivi vi albergano.

E’ noto che l’architettura è un complesso sistema di segni, che sono il significante di idee e concetti  di cui spesso gli architetti si servono, o si sono serviti, per esprimere opinioni, denunce e anche per prendersi beffa (come il caso di Michelangelo che in Porta Pia si prende clamorosamente gioco di Pio IV).

Così l’arguto panormita, memore di questo vezzo degli architetti, sapiente di questo sistema esoterico di comunicazione, inveisce contro i messinesi, sostituendo nel capitello parastale, che aveva già adottato sul prospetto del Banco di Sicilia di Caltanissetta, la coppia di cornucopie (iconologia filologica alla funzione di quel palazzo), con due grossi pesci abissali, dalla bocca aperta, conosciuti dalla vulgata popolare come “buddaci”. Una specie ittica capace di inghiottire di tutto, la cui bocca larga e testa grande metaforizzano la trasformazione antropologica che i messinesi subirono dopo il 1908, passando da popolo riconosciuto per il suo carattere reattivo e fermamente deciso contro soprusi e ingiustizie, al punto da essere appellato come “misca moffe”, a gente dall’anima senza pretese, creduloni quanto ciarlieri, disimpegnati quanto inconcludenti, sì da esser paragonati ai “buddaci”: Serranus Scriba un pesce comunemente chiamato Sciarrano o Boccaccia.

Così il palazzo municipale di Messina per i messinesi è palazzo Zanca, per Zanca fu il palazzo dei buddaci. 

A quest’uomo è stata intestata l’architettura che più di ogni altra rappresenta la città, con il solito modo omeopatico, di alcune coscienze colpevoli, di nascondere con strumentali encomi le vere versioni inconfessabili della storia.

Sentendo “Palazzo Zanca” chi mai potrebbe pensare che Zanca era un ingegnere qualunque, un professionista imposto alla città per le sue forti entrature politiche, divenuto ad essa ostile per motivi prosaici, per un affare spartito male?

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Ostile alla città ma i “buddaci” gli dedicano il Palazzo: segreti e storia di Antonio Zanca, ingegnere avido e modesto

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