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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Palazzo Zanca, storia di una metafora

I capitelli sono la sintesi di una vicenda singolare e quanto mai articolata. Retroscena su progettazione e realizzazione affidata all’ingegnere membro della commissione, dopo l’annullamento di due regolari concorsi

I capitelli di Palazzo Zanca, come già accennato nella precedente occasione, sono la sintesi di una vicenda singolare e quanto mai articolata. La progettazione e la realizzazione vede un incarico diretto affidato all’ing. Antonio Zanca, uno dei membri della commissione, dopo l’annullamento di due regolari concorsi. Un ambiente tecnico che si ribella, l’indignazione popolare e una campagna di stampa ostile, non dissuasero il progettista dall’accettare l’incarico, sostenuto com’era da una fazione politica molto influente e dall’appoggio amichevole del Capo dell’Ufficio Tecnico Lugi Borzi. Agli inizi tutto filò liscio. Ma dopo pochi anni cambiati gli equilibri politici e subentrati un nuovo Commissario e un nuovo Capo dell’Ufficio Tecnico, tutto per Zanca divenne vischioso. Cominciò una paradigmatica schermaglia tra l’Amministrazione Comunale e l’Ufficio Tecnico da una parte e il progettista dall’altra.

Proveremo a raccontarla (in più parti) in modo più puntuale e approfondito al fine di mettere a fuoco meglio l’intera vicenda, a scanso di involontarie incomprensioni, anche in riferimento alle note dei familiari di Zanca che ci sono giunte e che meritano un approndimento.  Cercheremo di comprendere l’irrisolto dilemma del perché il Palazzo Municipale venne intitolato proprio al progettista (fatto rarissimo forse unico), considerato che, dalla lettura degli atti e degli epistolari ed osservando i capitelli, il cui significante ha come palese referente la metafora con la quale in modo dispregiativo si appellano i messinesi, Antonio Zanca durante la realizzazione dell’opera non fu propriamente accettato e non ebbe rapporti tranquilli con il Palazzo.

L’origine della vicenda: i concorsi 

Su nove progetti pervenuti al Concorso Nazionale per la ricostruzione del Palazzo Municipale della città di Messina, bandito nel 1910, solo due furono ritenuti dalla Commissione esaminatrice conformi ai requisiti previsti dal bando, che imponeva di: “Coprire tutta l’area dell’is. 324, così come era previsto da P.R.G.”. La Commissione era composta da: Pio Piacentini, che fu una figura preminente dell’estetica umbertina della capitale insieme ad architetti della statura di Guglielmo Calderini, Giuseppe Sacconi, Gaetano Kock e Manfredo Manfredi, padre del più celebre, e allora ventottenne, Marcello Piacentini; Anselmo Ciappi, ingegnere, deputato, docente universitario, a lui si deve la legge che nel 1922 istituì in Italia gli ordini degli architetti e degli ingegneri; Crescentino Caselli, ordinario di architettura presso l’Accademia delle Belle Arti di Roma. Allievo prediletto di Alessandro Antonelli, il famoso architetto che progettò, a Torino, la Mole Antonelliana. Dopo la morte di quest’ultimo toccò a lui completare il monumento simbolo della capitale savoiarda; Giovanni Battista Milani, docente dell’università capitolina, architetto neo barocco, autore della Stazione di Mergellina a Napoli e del Lido di Ostia che a Messina accantona la sua esuberanza espressiva per adottare un afasico neo-manierismo umbertino con il quale progetta il Sacrario di Cristo Re, scontata citazione della  Basilica di Superga; Luigi Borzì; Alessandro Salvatori, Commissario della città; La stessa Commissione valutati i due progetti ammessi: il primo, un edificio a pianta centrale, denominato “Anissem” (banale contrario di Messina); il secondo, un organismo edilizio dall’esuberante monumentalità, opera del famoso ed eccentrico architetto Guglielmo Calderini , denominato ossimoricamente “Semplicità”; decretò la vittoria di Calderini.

Si trattava di un progetto fastoso, che comunque appariva meno carico di decorazioni rispetto al suo Palazzaccio romano, opera che lo rese famoso. L’ipotesi progettuale concentrava l’apparato decorativo solo sul prospetto principale, lasciando semplici e svestiti gli altri prospetti, nonostante si affacciassero su strade importanti come: Corso Cavour; via S. Camillo; via Consolato del Mare. Accadde, però, che il 15 febbraio del 1912, il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici respinse il progetto di Calderini, ritenendo le imponenti cupole e i gruppi marmorei che decoravano l’attico rischiosi dal punto di vista sismico ed eccessive sotto quello formale. Nondimeno, lo stesso Consiglio suggerì di rifare il concorso indicando, tra i nove progetti presentati, solo tre meritevoli di concorrere: “Semplicità” di Calderini, appena bocciato; “Ca.di.do” degli architetti Cannizzaro e Di Domenico e “Matuzio” dell’ingegnere Agosti. Durante il riesame dei progetti la Commissione esaminatrice venne integrata da un nuovo elemento: il panormita Antonio Zanca, ingegnere, allievo di Giuseppe Damiani Almeyda (l’architetto autore del Teatro Politeama di Palermo), che in città dal 1903 al 1908 aveva svolto l’attività di docente presso l’ateneo peloritano, assistendo il prof. Enrico Calandra. In questo soggiorno peloritano Zanca si era integrato pienamente nell’ambiente cittadino, al punto da vantare, encomiasta, la frequentazione di Ludovico Fulci: “Ricordo bene quanto mi diceva il Senatore Avv. Ludovico Fulci, uomo di mente veramente superiore…” e l’intima amicizia con Luigi Borzì. “Della Commissione feci parte anch’io: il mio compianto amico Luigi Borzì e due colleghi di Roma”. La rinforzata compagine commissariale, aggiudicò ancora una volta la vittoria al progetto di Calderini, che intanto aveva ridotto l’altezza delle cupole e alleggerito l’apparato decorativo rimuovendo i motivi del diniego espresso da Consiglio Superiore. L’aggiudicazione a Calderini, secondo la versione dello stesso Zanca, fu ispirata dalla pietas verso la condizione di indigenza cui questi ormai versava: “a voti unanimi, decisero di dichiarare vincitore Calderini anche in considerazione delle ristrettezze economiche in cui si era ridotto quel sommo artista per la sregolata vita trascorsa”.

Ma anche la nuova aggiudicazione fu bocciata dal Consiglio Superiore che pur ritenendo il nuovo progetto conforme alle norme antisimiche, ne censurava la semplicità dei prospetti secondari (non osservata nella valutazione precedente), ed infine dichiarava l’opera insostenibile dal punto di vista economico, data la sua estensione all’intero isolato (parametro imposto dal bando quale conditio sine qua non). Alla luce dei rilievi mossi (che ci spingono a pensare che Calderini non fosse molto amato dal Consiglio Superiore, considerazione confortata da quanto afferma in merito lo stesso Zanca: “Il Consiglio Superiore tenne duro nel dare parere contrario, facendo così comprendere che del Calderini non si doveva tener conto in alcun modo”), l’organo superiore annullò il concorso e suggerì di realizzare il palazzo in un’altra, più piccola, area, allo scopo di contenerne i costi. Questi i passaggi formali e legittimi, di fatto, fecero perdere alla città l’occasione di avere un’opera di Guglielmo Calderini, che certamente l’avrebbe qualificata meglio di quegli anonimi passatisti, che realizzarono inespressivi ed inconsulti manierismi, avvantaggiati da quella logica con la quale fu gestito il concorso. Un’opera di Calderini avrebbe imposto il suo stimolante paradigma migliorando l’estetica degli edifici pubblici cittadini, così come fece Gino Coppedè per quella degli edifici privati. Guglielmo Calderini, nel panorama neo-eclettico dell’epoca, discutibile e reazionario ma pur sempre espressione estetica del positivismo europeo, fu figura di grande rilievo e di forte personalità insieme a Gino Coppedè, Ulisse Arata, Giuseppe Mancini e Giuseppe Sammaruga, uomini di spicco che con la loro singolarità reattiva anarcoide, esasperarono la dottrina con eccessivi individualismi iperbolici, con gigantismi visionari, gareggiando in bizzarria e paradossi, scrivendo un’insolita pagina della storia dell’architettura italiana. La loro creatività rivoluzionaria aveva il solo torto di guardare nostalgicamente al passato. Con loro come diceva Pessoa: “l’idea conservatrice è un’eterna rivoluzione”. Personaggi che ovunque operarono, aldilà della qualità artistica e dell’indiscutibile qualità professionale, assumendo dimensioni fenomenologiche. Ecco come fu annullato il concorso nazionale per il palazzo municipale.

E poco meno di due mesi dopo, il 9 aprile 1912, il Commissario Salvatori, su suggerimento di Borzì, con incarico diretto, affidò la progettazione del nuovo Municipio, da realizzarsi sempre nell’area dell’isolato 324, e sempre per l’intera estensione, ad uno degli ex commissari esaminatori: Antonio Zanca. Improvvisamente svanirono la necessità di abbattere i costi e l’idea di un’altra, più piccola, localizzazione. Questa circostanza rende palesemente pretestuosi le motivazioni dell’annullamento del concorso. L’incarico diretto, all’epoca irrituale, determinò non poche insofferenze e indignazioni nell’opinione pubblica, nell’ambiente dei progettisti, in quello politico e sulla stampa, così come ci dice lo stesso Antonio Zanca nell’autobiografia resa dal nipote Renato Zanca: “Non è a dire quanto sia stata feroce l’opposizione della stampa locale e dei tecnici e vivissima la polemica giornalistica contro questa decisione, cui non volli tener conto”.  

Segue…. Seconda puntata

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