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Venerdì, 19 Aprile 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Bar Billè e l'architettura del “distanziamento”, ma il problema è l'assenza di un piano di arredo e decoro

Uno spazio di ristoro in ferro vetro, alieno, in un tempo dove l’impensabile è avvenuto, pare un bavaglio anche per l’architettura messo sulla bocca di uno degli edifici più visibili del centro commerciale della città, che fu un archetipo del tempo libero cittadino: il Bar Billè. Oggi uno degli esempi più integri dell’architettura neo-eclettica messinese.

E’ vero che l’eclettismo messinese fu una tardiva ed insensata rappresentazione di un conservatorismo becero, più volte chi scrive l’ha definito un trapianto di un organo ormai vecchio e malato in un organismo giovane appena nato, come la città di Messina dopo il 1908. La città era giovane e come tutti i giovani sarebbe stata “moderna” se la si fosse vestita di quella modernità che in quell’inizio di ‘900 si secolarizzava con le spinte dell’avanguardia e del modernismo più alto.

Bar Billè, il parallelepipedo della discordia e le architetture a specchio

La Sicilia, in quell’epoca, fu la culla di una delle versioni più pregiate del Liberty: il Floreale. I “colpi di frustra” e le sinuosità floreali che interpretavano lo spirito della modernità europea era diffuse in ogni città piccola e grande. L’unica a farne eccezione fu Messina. Città appena rinata che, pur di rifarsi una storia e un’identità, si vestì di un neo eclettismo insensatamente citazionista che declinava un passato non suo, censurandosi ogni istanza di futuro.

Questo discutibile processo culturale, nella sua espressione architettonica, è il valore che si deve tutelare.  

Spesso nell’”neo-eclettismo messinese” non c’è valore artistico assoluto, non c’è innovazione, ma c’è un forte valore documentario e storico, che racconta dinamiche e vicende che non dovremmo cancellare poiché il loro portato metaforico ci può aiutare a modulare meglio tutte le riscritture contemporanee che compiamo, progettiamo e autorizziamo all’interno del centro cittadino.

Il palazzetto neoeclettico si trova all’ingresso di piazza Cairoli, al centro della prospettiva di chi vi giunge dal leggero pendio di via Garibaldi, ciò lo rende imponente alla vista, benché sia di modeste dimensioni.

Costituito da un piano nobile con due lussuosi e ampi appartamenti e da un piano terra con tante e redditizie botteghe, la sua architettura ridondante ostenta il lusso di una borghesia agraria che all’epoca cominciava a far fortuna con la rendita delle botteghe. L’involucro è un miscuglio di insensati stilemi architettonici, un groviglio di citazioni scomposte: al piano terra le botteghe incorniciate con paraste neoclassiche; al piano primo solenni cornici sormontate da imponenti timpani spezzati dal referente michelangiolesco si affacciavano su improbabili balconi dalle ringhiere a petto d’oca stilisticamente errate. Segni “fuori luogo” e fuori tempo.

Oggi su questo involucro, nel prospetto “principale”, è stato innestato uno scuro parallelepipedo in ferro vetro.

Un tipico ed essenziale esempio di architettura della postmodernità.

Il riferimento è a quell’architettura priva di note specifiche, di riferimenti gerarchici, d’identità simbolica che sta conquistando i centri storici delle città imponendo ovunque il suo lessico pragmatico ed omologate la cui cifra è caratterizzata da notevole povertà espressiva. Si tratta di un’architettura che si propone ultronea al contesto come un’invasione aliena. Involucri amorfi, inespressivi che non trasmettono significati e significanti di senso. Non hanno codici che possono essere compresi o comprensibili.

L’architettura delle pareti vetrate ormai è diffusa ovunque, amorfa, anonima, uniforme, senza identità, senza carattere, inteso proprio senza caratteristiche, cioè senza connotati riconoscibili.

Sono le architetture a specchio, quelle che non comunicano con l’esterno. Sono impermeabili, espulsivi, riflettenti. Non dialogano con il contesto che le accoglie. Riflettono l’ambiente circostante restando neutrali, quasi a volere prendere le distanze con quanto le circonda.

In questi giorni diremmo che si tratta di un’architettura di distanziamento. 

Sono quasi sempre nocive ai luoghi in cui s’insediano. Se l’ambiente e degradato amplificano il degrado, se l’ambiente è bello si vestono malamente della sua bellezza deformandola in modo grottesco sulle loro superfici riflettenti a seconda della luce e dell’ora della giornata, producendo distorsioni che disturbano l’armonia degli spazi urbani rendendoli irreali. 

Si è già detto, in questa rubrica, del fenomeno deformante delle sopraelevazioni, si è parlato dell’inopportunità dei restauri che coprono definitivamente i decori di amalgama, rendendoli inespressivi. Si è discusso dell’opportunità di un “Regolamento del Restauro” e di un “Piano di Recupero del Centro Storico”, e soprattutto si è argomentato ampiamente di tutti quei manufatti (dehors e spazi di ristoro) che con le loro fogge inconsulte deprimono il decoro cittadino, restituendo una percezione disturbante del paesaggio urbano.

Si è detto di come lo sguardo che scorre le vie e le piazze, o più semplicemente che fruga per le strade della città viene turbato da forme e segni eterogenei che squalificano anche quelli che di loro hanno una intrinseca piacevole cifra estetica. Inseriti in un contesto caotico anch’essi contribuiscono ad una percezione sgradevole, per il semplice fatto che l’atteggiamento babelico dell’ambiente urbano è difficile da mitigare con un singolo elemento, seppur di pregio. Non è questione di singolo manufatto ma è questione di equilibrio, armonia e uniformità generale.

Senza una visione organica dettata da una ponderata unicità e dalla ricorrenza di tipicità formali la scena urbana sarà sempre caotica.

Lo spazio di ristoro dell’ex Pasticceria Billè è la risultante inevitabile di una assoluta disattenzione al caos che genera l’eterogeneità di questi manufatti, commercialmente necessari, che ormai hanno compromesso quel poco che resta della vivibilità estetica e del decoro del centro città.

Non regimentare questo fenomeno in origine ha sedimentato una insensibilità diffusa, e il legittimo atteggiamento del “faccio da me”, che se pur produce estetiche particolari più o meno significative incrementa gioco forza il caos, mortificando la buona volontà di tutti gli attori.

Come già detto in un articolo precedente di questa rubrica urge con impellenza un “Piano dell’Arredo e del Decoro Urbano”.

Questa vicenda è l’ennesima prova provata della necessità improcrastinabile di una strategia di riqualificazione dell’ambiente urbano che restituisca un’immagine armonica della città di un tempo ed attivi un nuovo processo estetico qualificante, che punti sulla tipicità e l’unicità di nuove cifre urbane distintive di valore artistico e culturale.

Bisogna evitare il solito regolamento meramente normativo avviando un processo culturale che assuma profili pedagogici più che sanzionatori. In questo caso non servono le multe, servono gli architetti.

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