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Venerdì, 29 Marzo 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Piazza Don Fanu, storia del leggendario oste del pescestocco che ora merita una intitolazione vera

Per tutti i messinesi porta il suo nome lo slargo “Risorgimento” dove è riuscito a trasformare una putìa in un tempio del gusto semplice e raffinato. Una storia minore di grande umana generosità che merita un riconoscimento ufficiale

Lungo la via Risorgimento, a Messina, nel tratto compreso tra le perpendicolari di via Luciano Manara e via Camiciotti, vi è uno slargo denominato: Largo Risorgimento. Un’area urbana che celebra con coerenza intitolativa i moti rivoluzionari ottocenteschi. Ma questa sottigliezza toponomastica è colta da pochi messinesi poiché per tutti quello slargo è piazza Don Fanu.

Un eponimo legato ad uno degli archetipi più forti della città: il pescestocco a ghiotta e ad uno dei suoi più grandi e celebri interpreti.

Epifanio Fiumara, detto Don Fanu, non fu un eroe risorgimentale ma un oste, un oste eroico. Eroico perché nella sua trattoria, che si affacciava sullo slargo descritto, oltre a sfamare gli avventori suppliva alle forti carenze di strutture di sostegno sociale stabilendo di volta in volta il prezzo del pasto in base alla disponibilità economica degli avventori.

Piazza Don Fano, un luogo, una grande storia

Alto, corpulento, rumoroso, aveva per tutti una parola, un sorriso. Di forte carattere, deciso ma al contempo brioso e alla mano era adorato dal popolo per la sua prodigalità verso mendici e povera gente.

La sua generosità trasformò la sua putia i manciari, in un luogo dove i meno abbienti potevano comunque sfamarsi nonostante le loro poche risorse, perché Don Fanu non lasciava mai nessuno dietro i vetri del suo locale e dava da mangiare a tutti, ricchi e poveri.

Questa apprezzata sensibilità e il suo savoir-faire unitamente alla bontà insuperabile del suo Pescestocco a Ghiotta, cucinato nella versione popolare con le patate, sono all’origine della sua fama leggendaria.

Quella delle patate nella ghiotta di pescestocco fu la sua grande eresia. La sua ribellione all’ortodossia della tradizionale ricetta messinese, che escludeva categoricamente le patate perché: “si rubano il gusto”, di fatto fu un espediente per garantire la qualità e al tempo stesso abbassare i costi della famosa pietanza. Ciò per poter garantire prezzi modici alla portata di tutte le tasche, e là dove le tasche fossero scarse di denari un ragionevole sconto o addirittura concedersi un sopportabile omaggio.

Don Fanu era oste di mondo. Sapeva trattare l’avventore abbiente e quello meno abbiente, differenziandone il trattamento, e sapeva “farsi rispettare” da entrambi.

Quando un mendico o un povero appariva cauto sulla soglia della sua putia, attirato dall’irresistibile odore che sin delle prime ore del mattino invadeva la piazza, egli lo invitava ad accomodarsi come se fosse un avventore di riguardo, poi con riservo si informava sui pochi spiccioli posseduti, ritirata la povera somma gli serviva comunque un lauto pasto. Questo risaputo atteggiamento gli attirò la benevolenza e la stima di tutti i messinesi.

Lo standard minimo che saziava l’avventore nobile, borghese o popolano era una porzione di Pescestocco a Ghiotta consistente in due pezzi di pesce e tre patate (quale riempitivo succedaneo) e tanto sugo nel quale inzuppare un filone da mezzo chilo di pane innaffiando tutto con mezzo litro di rosso dell’Etna. Con queste dosi chiunque si alzava dal desco satollo.

Era lui stesso che ammollava nel retrobottega lo StokkfisK delle Isole Lofoten, mentre la moglie metteva in salamoia le olive e provvedeva con pazienza a produrre quel concentrato di pomodoro che faceva tirare il sugo, perché questi non deve mai essere annacquato: il Pescestocco a ghiotta non è una zuppa ma un ragù di pesce. I capperi di Pantelleria e le cipolle e il sedano degli orti della cintura agraria cittadina completavano il capolavoro.

Egli fu un riferimento sociale, la sua osteria una tappa consolatoria, Il suo menù ghiotto e soddisfacente. Don Fanu saziava le pance senza svuotare i portafogli. Era il classico professionista di un tempo che sublimava la sua vita nel lavoro e prendeva soddisfazione più dalle relazioni sociali e dalla fama che dal denaro che guadagnava.

Altra nota caratteristica del personaggio era l’esasperata inclinazione all’igiene. La trattoria per quanto angusta era pulitissima e questo attirava i ceti più nobili e consentiva la frequentazione di signore e famiglie.

Un dato che ci dà l’idea della sua grande abilità di chef raffinato e uomo onesto è la sua avversione assoluta verso l’uso del peperoncino nel pescestocco e in tutte le pietanze della cucina messinese.  Sapeva bene che il peperoncino non è un esaltatore di sapori bensì il contrario, anestetizza le papille gustative e copre l’eventuale cattiva qualità e freschezza degli ingredienti.

L’osteria si affacciava sulla piazza ed era ubicata dove ancora persiste la vestigia di un palazzo settecentesco, superstite al sisma del dove 1908, con il piano terreno a Taberna Romana: tutte botteghe con piano ammezzato sovrastante che fungeva da abitazione dell’artigiano, la famosa Casa e Putia.

Nei locali ammezzati Don Fanu abitava con la numerosa famiglia di 7 figli. L’osteria, nata prima del terremoto, era ubicata agli attuali numeri civici 124 e 126, fu passata agli eredi nel 1939 e chiuse definitivamente nel 1960.

Il profilo sin qui tracciato mette a fuoco un uomo dalle grandi capacità professionali e di elevata umanità il cui ricordo permane integro nei messinesi a sessant’anni dalla chiusura della sua trattoria.

Questa munificenza verso chi era in difficoltà spiega l’imperitura memoria della figura leggendaria di questo Oste. Per anni quel luogo per i messinesi fu “A piazza i don Fanu”, abbreviazione di “A piazza unni c’è a putia i don Fanu”. La piazza era sua! Era lui l’attrattore antropico, era lui l’aggregatore sociale che attivava la frequentazione di quello spazio urbano.

Questo eponimo spontaneo è segno della secolarizzazione di buone azioni compiute veramente, di buoni comportamenti apprezzati unanimemente e di buona cucina che costruisce le tradizioni locali. Fattori che hanno avuto e continuano ad avere, ovunque, la meglio su commemorazioni forzate e imposte intitolazioni toponomastiche.

Gli spazi raccontano storie e quando le storie sono storie positive diventano toponimi che nessuna ufficializzazione formale di natura burocratica, e meno che mai propagandistica, può cancellare.

Crediamo che oggi sarebbe il caso, e il momento, di procedere ad una intitolazione pubblica!

Un atto dovuto per dare un riconoscimento ufficiale ad una storia minore di grande umana generosità.

Del resto non c’è celebrazione formale che può resistere a taluni genis loci, specie se sono di matrice gastronomica e di così alto livello morale.

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