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Giovedì, 25 Aprile 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Messina, la ricostruzione con pietre finte e il terremoto che non passa

Le amalgama di cemento dei palazzi eclettici frutto di una moderna tecnologia pallida metafora di una rinascita civile ancora irrisolta

“Strade larghe come una fiera campionaria, tagliate ad angolo retto, fabbricati bassi, brutti, e tristi che fanno pensare allo Stato. Non alle monarchie normanne, aragonesi, spagnole, barbariche, ma allo Stato Italiano, quello dei sale e tabacchi, del chinino, dei carabinieri, della leva militare, delle questure, della carta bollata, misterioso Stato burocratico, astratto ma razionale, unitario ma senza centro. A Messina il terremoto, in sede urbanistica è ancora il fatto più importante. E’ lui che ha tracciato queste strade ventose e informi, regolato l’altezza degli edifici, dettato lo stile tramortito e pallido della città. A Messina il terremoto c’è ancora".

Messina e le pietre finte

Ecco come descrive l’immagine della città Alberto Moravia in un reportage, apparso il 10 giugno del 1950 sul settimanale "Il Mondo" di Mario Pannunzio, quando ancora le architetture della ricostruzione post terremoto non erano state soprelevate o sostituite. Quel pallore anonimo descritto dal grande scrittore era espressione di una scelta tecnologica balsana: i decori delle facciate dei nuovi palazzi realizzati non in pietra ma in amalgama di cemento, le così dette pietre artificiali.

In principio fu Eternit

Una tecnica molto economica che consentiva la realizzazione di modelli architettonici e decorativi prefabbricati o di facile realizzazione a piè d’opera. Impasti facilmente elasticizzabili grazie all’impiego del cemento.

La prima industria italiana che produsse questi materiali fu la famosa “Eternit”, allora fondata dell’inglese Geo Davidson (personaggio famosissimo nell’Italia dei primi anni del XX secolo per aver organizzato il primo campionato italiano di calcio e per essere stato campione italiano di ciclismo).

 A quel tempo questo materiale fu prevalentemente adottato nell’architettura moderna di ispirazione progressista, poichè coerente con l’ontologia dei suoi linguaggi: abbatteva notevolmente i costi delle decorazioni consentendo una più perequata distribuzione del bene casa senza andare a discapito del nuovo decoro architettonico (Ancora non era giunta la pialla dei razionalisti e dei puristi). Raramente questo materiale fu impiegato per la realizzazione di architetture dalla semantica conservatrice. Sarebbe stato anacronistico.

Tuttavia c’è da dire che l’efficientismo prosaico di talune imprenditori positivisti cominciò ad applicarlo in operazioni edilizie in cui riteneva di dover fare economia. Molte furono le applicazioni nei palazzi della Nuova Genova dell’espansione urbana sull’asse di via XX Settembre. Gino Coppedè, molto vicino a Davidson, nel capoluogo ligure, su commissione dei Fratelli Cerruti, fu tra i primi a sperimentare questo materiale sui suoi blasonati modelli stilistici prima di allora eseguiti solo con nobile materiale lapideo.

I Cerruti e lo stile “sperimentale”

Questi apparati in Sicilia furono assunti subito dallo stile floreale che in quel frangente storico si diffuse capillarmente in tutta l’isola, tranne a Messina. A Messina se ne fece una speciale e inopportuna applicazione. La città diventò un laboratorio sperimentale di questa tecnica come per le altre tecniche applicate alle costruzioni in cemento armato. Molti valenti artigiani, maestri delle arti applicate all’architettura, autentici esecutori dello Stile Coppedè vennero richiamati in Riva allo Stretto ad assumere ruoli di vertice sia nei cantieri della ricostruzione dalla “Società Anonima Italiana Ferrobeton”, dei fratelli Cerruti con sede in Roma, Genova, Milano e Napoli. Società che ebbe un ruolo preminente tra le imprese edili che giunsero in città a contendersi la partita della ricostruzione. Figli di Alessandro Cerruti, finanziere e armatore a capo della famosa società di navigazione "Lloyd Sabaudo”, nella quale Casa Savoia deteneva una notevole quota sociale. I Cerruti erano soci del Re e detenevano anche molte quote azionarie in altre imprese edili attive in città come: la “Aedes” di Genova e la “Lorini” di Milano. Erano proprietari della “Società Anonima laterizi Genova”, leader nella fornitura del materiale edilizio impiegato per la ricostruzione e titolari della “Ditta bancaria Fratelli Cerruti”: una banca che operò in città solo per il tempo della ricostruzione, finanziando molte imprese edilizie e gestendo ed intercettando molti dei finanziamenti statali. Erano anche una sorta di “concessionari” dello Stile Coppedè. Una moda architettonica dell’epoca, uno status simbol ricercatissimo nell’ambiente della borghesia imprenditoriale italiana, la cui esclusiva imbonì quella borghesia agraria proveniente dall’entroterra peloritano che si apprestava a conquistare la città ed era alla ricerca di una estetica blasonata che la qualificasse.

Così le pietre artificiali a Messina hanno sostituito la costosa pietra scolpita fornendo suggestive espressività di concezione passatista usando il prosaico, pratico ed economico cemento invece della nobile pietra.

Eclettismo messinese

Le decorazioni in amalgama di cemento hanno caratterizzato, lo sviluppo dell’“Eclettismo Messinese” divenendo elemento tipico dell’estetica della nuova città. Le “pietre artificiali”, divennero tipiche della produzione edilizia cittadina, al punto che Messina diventò laboratorio d’avanguardia di questa tecnica sviluppatasi in riva allo Stretto, come complemento alla nuova tecnica del cemento armato di cui si aveva obbligo d’impiego.

L’impiego dei  “cementi decorativi”  fu favorito dalle caratteristiche di queste amalgama, che consentivano una rapida realizzazione, una facile plasmabilità, erano ripetibili e soprattutto, come si è già detto estremamente economici.

Così l’attività artigianale degli scalpellini a Messina si trasformò in una attività industriale con produzioni seriali, dove il lavoro di scultura si limitava alla realizzazione del modello sul quale venivano realizzati gli stampi, spesso in “caucciù”, con il quale si replicavano i decori. Questi venivano rafforzati con delle armature di metallo. Le decorazioni di superficie venivano modellate direttamente sul supporto armato o non armato.

In città sorsero molte fabbriche di manufatti prefabbricati in cemento, si raffinarono le tecniche e si trovarono sempre più equilibri nella dosatura degli impasti, in modo da rendere il prodotto sempre più verosimile alla pietra. Le amalgama usate a Messina rispondevano quasi sempre a dosaggi formulati secondo un protocollo che divenne tipico e che definì l’esecuzione a regola d’arte. Erano impasti variamente formulati con cemento; sabbia fine o finissima lavata di fiume e graniglia della pietra che si voleva simulare, con aggiunta di sostanze o materiali pigmentanti come polvere di laterizio. La miscela veniva completata con polvere di marmo per fornire meglio l’aspetto della pietra e migliorare le capacità meccaniche e brillantezza all’impasto. Il tutto veniva poi rifinito in opera definendo l’elemento decorativo con scalpellino, sabbiatura ed in ultimo levigandolo con un panno di pelle fina.

Quelle miscele “effimere”

Queste miscele, spesso messe in opera in fretta o con poca competenza specialistica, quasi sempre senza polvere di marmo, si sono rilevate effimere. Sono stati facilmente erosi dagli agenti atmosferici e la loro espressività è divenuta amorfa. Il colore lapideo simulato presto ha lasciato il posto al grigiore del cemento che ha prevalso sul tentativo patetico di voler fintamente plasticizzare nelle facciate dei nuovi palazzi e dei nuovi monumenti pietre nobili come il tufo, il travertino, il marmo di Carrara, la pietra bianca di Siracusa o di Bauso, etc.

Dal punto di vista semiotico questo fenomeno ha generato una grande ossimorica incoerenza tra il materiale, moderno ed economico, e le forme che a esso si davano, antiche e lussuose. Una stridente contraddizione tra quanto quei repertori eclettici rappresentavano (opulenza, fasto, blasone, ricchezza, etc..) e il loro contenuto intrinseco, povero, industriale e di largo consumo. Una sorta di “vorrei il lusso ma non posso” tipico di certo gusto pacchiano. Un corto circuito tra significante e significato.

Ecco come i rigidi volumi strutturati in cemento armato che sostituirono la città antica furono ammantati fintamente di lusso.  Un lusso di cemento.  Un grave inganno per nascondere un gusto che non c’era, un blasone artefatto, funzionale a raggiungere privilegi ingiusti e indebiti.

Ma il cemento stesso, a poco a poco, svelò la grande impostura imponendo il suo grigiore a quelle finte pietre, dando al paesaggio urbano quelle sfumature pallide che lo resero amorfo e inespressivo agli occhi di Moravia denunciando con icastica evidenza i termini di quel terremoto urbanistico che fu la ricostruzione.

Queste pietre artificiali sono la forma di un paradigma estetico che dopo il 1908 si face latore di un gusto reazionario che pervase tutta la nuova città coerente alla vicenda umana e sociale che ne seguì, caratterizzata dall’acquisizione di perniciosi privilegi per pochi e dalla sottrazione di diritti per molti.

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