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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

"Lo Stretto? Più grandioso del Bosforo", quando il padre del Touring Club girò Messina in bicicletta

Era la primavera del 1898 quando Luigi Vittorio Bertarelli, industriale milanese con la passione del ciclo turismo arrivo in città. La sua analisi su un paradiso terrestre di cui oggi si è perduta ogni traccia

Era la primavera del 1898 quando Luigi Vittorio Bertarelli, industriale milanese con la passione del ciclo turismo, fondatore del “Touring Club ciclistico Italiano”, che poi divenne semplicemente “Touring Club Italia”, giunge a Messina da dove iniziò la visita della Sicilia in bicicletta.

Dai diari di quel viaggio riportiamo la descrizione della città e del suo territorio.

Dal diario di Bertarelli

Allo scendere dal treno, a Reggio un bel signore che portava all’occhiello la spilla del Touring mi diede il benvenuto. Era Luigi Seguenza, console a Messina, venutomi incontro.

Fu il primo di tanti siciliani dal cui esempio, in seguito, appresi che quella terra, alle bellezze della natura unisce la cortesia squisita degli abitanti.

Andammo insieme al Ferry Boat, che partì subito.

Mentre durava la breve traversata dello Stretto, il Seguenza, che è paleontologo, è fornisce di fossili i musei di mezza Europa, mi andava illustrando i suoi monti, che formano di là del Canale una indimenticabile cortina, dall’Etna all’Antennamare, e giù fino allo sperone del Faro, tutto bianco di casette.

Ma io, un po' stordito ancora da quelle lunghe trentasei ore di diretto (chè tante ve ne sono da Milano a Reggio), ascoltavo un po' distratto le sue classifiche geologiche dei terreni, assorto nell’ammirazione per l’insieme grandioso della scena.

Messina, lo Stretto e Bertarelli

Mi dimenticavo persino di pensare al mal di mare, l’implacabile mio nemico, tutt’occhi nel vedere, appiedi dei monti rigati di strade militari, farsi sempre più netto l’immenso anfiteatro, dove posa la bella Messina.

Ecco la “Palazzata”, come chiamano la fila interminabile di grandi palazzi tutti uguali che ornano i quais; ecco farsi distinta una linguetta di terra che forma il porto; voltiamo intorno ad una lanterna e siamo giunti.

Il porto di Messina, commerciale per eccellenza, è chiuso da un braccio naturale sporgente, come da un molo. Lo si chiama il Braccio di Raineri ed ora vi si sta demolendo, per farvi un approdo dei Ferry-Boat, la fortezza che Carlo di Spagna vi eresse nel 1620 dopo una rivolta dei messinesi.

Questa lingua di terra arcuata diede alla città il suo primo nome: Zancla, che in greco vuol dire falce; solo più tardi fu chiamata Messis per l’abbondanza dei suoi terreni. E davvero soltanto la fertilità dei dintorni e la posizione spiegano come fiorisca tutt’ora disgraziatissima città, cui non starebbe male l’appellativo di rinascente fenice.

Nel 1679 gli spagniuoli la distrussero in parte; nel 1745 la peste vi uccise 40.000 persone; nel 1783 il terremoto ne rase al suolo la miglior parte, mentre nelle macerie si sviluppava per sette giorni un grande incendio; nel 1848 dal 3 al 7 settembre il bombardamento vi fu disastroso e , per finire , il colera del 1854 vi fece 16.000 vittime!

Messina è dunque una città in buona parte moderna, che contiene assai poco di antico, almeno paragonandola ad altri luoghi della Sicilia.

Urtano soprattutto il turista intelligenti, certi restauri senza gusto, dove a linee pure di un’architettura classica, dopo i terremoti distruttori, si aggiunsero delle ricostruzioni buffamente barocche.

All’interesse che ispirano pochi splendidi monumenti quali il Duomo e la Fontana, prevale quello che spira da ogni luogo dei dintorni.

La positura sullo Stretto è meravigliosa, unica al mondo forse.

Lo Stretto mi ricorda il Bosforo, ma è più grandioso di quello; i monti vi hanno profili più rotti e variati e com’è ridente, da entrambe le rive, l’opposta spiaggia, l’interminabile sequela di cittadine e di villaggi!

Giardini ed agrumeti e folti di odore fronde di limoni, di cedri, di aranci, di mandarini; villette sparse; lindi villaggi attraversati dal tram a vapore costiero e dalla ferrovia; fiumare(sempre secche tranne al momento della pioggia) che attraversano la strada intercettandola durante le brevi piene, anche nell’interno di Messina stessa; pozzi e fontane, ove le ragazze con l’anfora sul fianco, in classica attitudine aspettano il loro turno di attingere; norie e bindoli ancor piantati come quando Archimede l’inventò; una sapiente distribuzione d’acqua nelle coltivazioni agrumarie; distillerie di essenze, che spargono lontano il profumo intenso dei loro prodotti preziosi; una folla ridanciana e rumorosa nelle strade: ecco la fisionomia del paese, di cui lo sfondo è lo Ionio azzurro, dove le rapide correnti segnano bianche strisce serpentine di schiuma, dove a decine i grossi velieri grigi e i grandi piroscafi neri fumanti compaiono e scompaiono in una vicenda che non ha mai fine.”

Messina, la rinascente fenice

Dunque Messina era riconosciuta come una sempre rinascente fenice. Una città indomita capace di sollevarsi dalle macerie dei suoi innumerevoli tragici eventi.

Una città la cui identità e fisionomia era tracciata più dal suo incantevole contesto naturale che dalla forma del suo ambito antropico. Da questa bellezza e qualità ambientale traeva la linfa per le sue resurrezioni.

Purtroppo quella città non è più risorta, dopo l’ennesima tragedia, quella del sisma del 1908, poiché la conseguente ricostruzione rispetto alle precedenti cancellò la sua memoria e mortificò il suo incantevole paesaggio fino ad obnubilarlo del tutto.

Oggi di quello scenario naturale descritto dal fondatore del Touring Club Italia non resta più nulla. Di quel paesaggio non si riesce a riconoscere nemmeno un minimo tratto dei suoi antichi caratteri. Tutto perduto in un caos dove alligna una disarmonia brutale che infetta impietosa una bellezza naturale e paesaggistica dalla magnificenza mitica ed unica al mondo.

Retrospettivamente l’analisi di Bertarelli ci dà la prova provata di quanto la rapace aggressione del paesaggio dello Stretto sia stata, più che uno sviluppo, una perniciosa perdita sotto ogni profilo, da quello sociale a quello identitario.

Da quella descrizione del territorio messinese poco prima del 1908 si deduce chiaramente come la città fosse prospera perché traeva la sua forza proprio dalle grandiose risorse del suo territorio e del suo paesaggio. Aggredite queste potenzialità la sterilità è l’oblio sono state inevitabili e con esse la perdita della qualità antropologica e culturale.

Un paradiso terrestre divenuto una terra di rapina senza scampo e senza futuro.

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