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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Torre Faro e la spina del faroto, la storia metafora nella terra del mito

Viaggio tra il borgo marinaro che avrebbe potuto produrre ricchezza economica e culturale inesauribile invece è stato occupato da improbabili industrie navali, ultronei impianti di tiri al piattello, prosaiche centrali elettriche ed in ultimo speculatori edilizi. Un villaggio che deve ancora imparare a difendersi dai parassiti

Nell’estrema punta a Nord Est della Sicilia c’è il luogo del mito. Un luogo d’incantevole bellezza naturale e marina dove si è sedimentata tutta l’identità secolare del popolo peloritano. Torre Faro sta a Messina come Trastevere sta a Roma. Luoghi di autoctoni per eccellenza. Un tempo fu uno dei borghi marinari tra i più belli e suggestivi del Mediterraneo. Un luogo dove in molti mesi dell’anno scompariva l’ombra e il sole ammantava totalmente le umili casette terranee che si affacciavano sull’ampio arenile coperto di reti e sul mare pieno di “luntri” (le barche con l’antenna per la cattura del pescespada).

C'era una volta Torre Faro, le foto della terra del mito

Per secoli fu caratterizzato da una lentezza quasi immobile, da atmosfere metafisiche (come quelle dipinte da Migneco o tragicamente narrate da D’Arrigo) dove il tempo era sospeso tra albe dolci che sapevano di sale animate dal sguizzare del pescato e tramonti leonini riflessi sulle case dell’altra sponda che il sole trasformava in scrigni dorati.

L'identità messinese narrata in Horcynus Orca

Torre Faro era un gruppo di povere case abbagliate dal riverbero azzurro dello “Scill’e Cariddi” che ammaliava con la magia della Fata Morgana. Un villaggio che fino a mezzo secolo fa conservava quasi intatta la vera identità messinese (quella narrata in Horcynus Orca).

Un luogo ove erano leggibili le sue affascinanti stratificazioni storiche, dove la linea inafferrabile della battigia non divideva la terra dall’acqua ma rappresentava un margine impalpabile tra la storia ed il mito.

Un borgo dove era evidente un Genius loci forte e plurimo che sovrapponeva un mito dopo l’altro: da quello omerico di Ulisse a Scilla e Cariddi a quello di Colapesce e di ‘Ndria Cambria.

Uno dei primi vincoli paesaggistici

Oggi la sua bellezza appare brutalmente violata da inconsulte colate di cemento disobbedienti persino ad uno dei primi vincoli paesaggistici che la Sicilia abbia avuto. La sua massa architettonica è la forma più lampante dello sfruttamento irrazionale di una grande risorsa.

La percezione del paesaggio faroto riferisce una spietata densità edilizia che ha definitivamente compromesso le sue caratteristiche di unicità e singolarità, impedendo all’UNESCO di eleggerlo patrimonio dell’umanità. Un inconsulto ed eccessivo carico antropico ha dissipato gravemente i suoi equilibri ecologici ed annientato qualsiasi potenzialità turistica e culturale.

Quel luogo avrebbe potuto produrre ricchezza economica e culturale inesauribile invece è stato occupato da improbabili industrie navali, da ultronei impianti di tiri al piattello, da prosaiche centrali elettriche ed in ultimo da speculazioni edilizie che ivi hanno costruito alveari per i bagni estivi immersi in un perenne rumoroso caos.

Il fantasma di un Ponte irrealizzabile

Oggi si distingue solo un pilone per l’elettrificazione che, vista la sua svettante mole, presto è divenuto un archetipo che scimmiotta la Torre Effeil assorbendo l’universale valore culturale dei miti precedenti.

Su tutto campeggia il fantasma di un Ponte irrealizzabile usato per frantumare la coesione sociale sui temi della valorizzazione del territorio dividendo i messinesi in tifosi pro o contro senza che abbiano alcuna consapevolezza sulla reale fattibilità dell’opera.

Torre Faro è comunque terra di metafore, la più illustre è quella dei Cariddoti di Stefano D’arrigo e della loro lotta eterna contro la “Fera”. Quel metaforico “pesce bistino” che li ha resi “vinti” come i Malavoglia di Verga. Vinti non dalla natura o dal mare, ma da un animale scaltro, opportunista e parassita. Un mammifero furbissimo che si nutre delle loro fatiche e sfrutta i loro sforzi e sacrifici. Questi invece di cacciare le sue prede aspetta che le reti dei pescatori si riempiano per banchettare facilmente mandando in rovina, senza scampo, le loro vite.

L'astuzia dei parassiti e la storia metafora

L’astuzia dei parassiti nel borgo marinaro è stato sempre un tema ricorrente, in merito vi è una storia leggendaria, quella de “La Spina del faroto” che ne è un illuminante paradigma.

Una metafora che la saggezza popolare un tempo adottava per apostrofare tutti quei deplorevoli comportamenti che sottomettono con l’inganno gli umili, gli indifesi e coloro che giacciono in condizioni di sofferenza e bisogno, cronicizzando la loro condizione di necessità per trarne perpetuo profitto.

L’ho appresa moltissimi anni fa da un vecchio faroto e qui di seguito la riporto lasciando al lettore ogni tipo di valutazione.

La spina del faroto

Si narra che un tempo nel borgo marinaro di Torre Faro vi era un medico condotto, quello che oggi chiameremo medico della mutua o medico di famiglia. Un buon dottore che riscuoteva consenso e devozione unanime non solo tra i suoi pazienti ma in tutta la comunità. Il dottore era sempre disponibile con tutti. Si prestava ad ogni bisogno non facendo mancare, a chiunque, assistiti e non, le sue prestazioni professionali. Era la vera autorità del luogo. Spesso veniva chiamato non solo per risolvere i malanni ma anche le liti famigliari, le ostilità tra vicini e qualsiasi tipo di conflitto sorgesse in paese.

Costui, lavoratore instancabile, sempre presente, rintracciabile di notte e di giorno, aveva un unico figlio. Un ragazzo che era nato e cresciuto tra le strade polverose del borgo e sull’ameno arenile.

Il classico bravo ragazzo, promettente studente che spinto da un forte processo d’identificazione con la figura paterna, dopo una brillante carriera scolastica, intraprese un’altrettanta brillante carriera universitaria nel locale ateneo, laureandosi in medicina e chirurgia con il massimo dei voti e plauso. Quindi seguirono molte specializzazioni all’estero che lo condussero a ben più alti successi professionali rispetto al padre. Divenne presto un valente cardiochirurgo in uno dei più prestigiosi ospedali londinesi. Fu subito onore e vanto di tutta la comunità farota. Su consiglio del padre molti faroti sottoposero i loro cuori alle sue pratiche chirurgiche, raggiungendolo, con non pochi sforzi economici, nella antica Albione. Poi, grati per il trattamento, lodavano, urbi et orbi, le sue doti professionali e umane compiacendosi di essere suoi compaesani.

Un giorno durante il periodo natalizio, il giovane medico, giunse nel villaggio in riva allo Stretto per trascorrere qualche giorno di vacanza con gli ormai anziani genitori. Fu in quella circostanza che il padre, una mattina, svegliatosi con un leggero stato febbrile, lo chiamò e gli disse: ”Senti, ho un po’ di febbre, e visto che fa freddo, non è prudente che io esca. Meglio che oggi stia a riposo, prendo un antifebbrile e mi cautelo, così domani potrò tornare operativo. Ti dispiacerebbe sostituirmi informalmente in ambulatorio solo per stamane? Mi eviteresti il fastidio di tutte quelle formalità che servono per farmi sostituire ufficialmente. Per un giorno non vale la pena. E poi si tratta solo di mezza mattinata”.

 Il giovane luminare accettò volentieri e si recò entusiasta nell’ambulatorio del padre a farne le veci.

Quando, all’ora di pranzo, fu di ritorno, il padre con agitata premura gli chiese come fosse andata la sua prestazione ambulatoriale.

“Benissimo!” rispose compiaciuto il figliolo… “E’ stato emozionante! Non puoi immaginare le feste che mi hanno fatto i tuoi pazienti. Quasi tutti hanno evocato di quando con i calzoni corti mi vedevano girare per i vicoli del paese. Mi hanno fatto molto piacere le loro manifestazioni d’affetto”.. affermò soddisfatto.

“E con le visite come è andata? Qualche caso problematico?” chiese il padre.

“No, tutta routine, tutto normale. Anzi è stata un’utile esercitazione, a furia di stare in sala operatoria corro il rischio di disabituarmi all’attività clinica” ed aggiunse.. “Vedi che ho dato alla mamma un grossissimo e bellissimo Mupo (un pesce raro e pregiatissimo) appena pescato, da cucinare per cena, te lo manda, insieme ai suoi rispettosi saluti, don Peppino, il pescatore. E’ venuto, per la solita medicazione”.

“E tu che hai fatto?” chiese il padre con tono incuriosito e inquieto.

“Cosa ho fatto? Niente, si trattava di un semplice ascesso alla guancia destra causato da una puntura di spina di pesce”.

“Si..si.., vero è, l’ho so!.... Ma tu che hai fatto?...” confermò e al tempo stesso domandò un po’ preoccupato il padre.

“Gli ho ispezionato la bocca ed ho visto che era tutto stranamente suppurato. Ho guardato bene e mi sono accorto che nella ferita da medicare c’era ancora un piccolo frammento di spina. L’ho estratto subito, gli ho fatto la medicazione, gli ho prescritto un antibiotico dicendogli che non c’era più bisogno che tornasse per altre medicazioni, poiché, avendo rimosso la causa e con la copertura antibiotica prescritta la ferita sarebbe guarita in pochi giorni senza fare nient’altro.”

“E’ bravo il minchione!” Esclamò irritato il padre “Così abbiamo finito di mangiare pesce!” .

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