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Giovedì, 28 Marzo 2024
Riguardare con cura

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A cura di Domenico Barrilà

“Dietro la notte”: un trhiller vero, intriso di umanità e da essa risolto

Il primo lungometraggio di Daniele Falleri è un’opera di antropologia culturale, capace di fotografare un tempo senza bussola, il nostro, intriso di un cinismo potente, dove gli uomini sembrano non avere contezza degli effetti delle loro azioni. Una società siderale, dove le distanze interumane sembrano incolmabili, anche nelle relazioni familiari, impregnandoci di pensieri senza speranza. Fino a quando...

Quando Giuseppe Verdi licenziò il suo ultimo capolavoro, il secolo diciannovesimo volgeva alla fine. A molti dovette sembrare che dopo Falstaff ci sarebbe stato assai poco da dire, eppure il 1893 non fu la fine di tutto, anzi, da quel momento gli autori italiani inanellarono una serie di meravigliose novità, alcune delle quali di impressionante bellezza. Anche dopo di loro parve che fosse stato detto abbastanza, e per tanti versi fu così, ma la musica è più grande dei generi, sottoinsiemi di una totalità infinita.

Bisogna, tuttavia, riconoscere che quando un linguaggio viene reiterato a forza di capolavori, così fu per l’opera lirica, chi arriva dopo sembra trovare spazi più ridotti per l’invenzione.

Talvolta accade di pensare che lo stesso cinema viva uno stadio meno esplosivo rispetto ai suoi anni d’oro e che anche qui il territorio delle novità si stia contraendo, ma poi arrivano delle buone idee, realizzate altrettanto bene, e quegli spazi tornano ad aprirsi.

Questo pensavo mentre mi godevo il primo lungometraggio di Daniele Falleri, apprezzato regista televisivo ma all’esordio sul grande schermo. “Dietro la notte”, appena approdato su Sky Cinema, è un film di valore che somiglia a tante cose insieme, in particolare a un paio.

Di sicuro a un ottimo Thriller, a tratti estremamente raffinato, ma anche a un’opera di antropologia culturale, capace di fotografare un tempo senza bussola, il nostro, intriso di un cinismo potente, dove gli uomini sembrano non avere contezza degli effetti delle loro azioni, tanta è la disinvoltura con la quale feriscono il loro prossimo. Affiorano personaggi privi di empatia, che utilizzano il proprio orticello di potere per sottomettere e mortificare chi entra nel loro raggio d’azione, per asservire al dio danaro i sottoposti, a loro volta, per imitazione, risucchiati in quella meccanica priva di compassione, così contagiosa e svilente, capace di ammalare l’individuo e la collettività, facendo apparire normale ciò che invece è riprovevole, compresa quella riduzione del lavoro a semplice mezzo, un mezzo asservito a pure ossessioni di incremento. Le scene iniziali, ambientate negli eleganti uffici di un’azienda che commercia diamanti, sono un estratto di questo velenoso brodo di coltura, dove tutto, soprattutto il peggio, può accadere senza che appaia degenerato.

Una società siderale, dove le distanze interumane sembrano incolmabili, anche nelle relazioni familiari, impregnandoci di pensieri senza speranza. Fino a quando, però, eccolo lo scatto, entra in gioco la persona, quella ancora capace di conservare la carta vincente della nostra specie, la compassione. 

Accade quando inizia a fare capolino la memoria di un padre, un poliziotto, che perde la vita per senso del dovere ma è ingiustamente misconosciuto anche dalla società per la quale si era immolato.

Accade quando si materializzano personaggi che il cinismo di cui si diceva, porterebbe a definire minori, senza prendersi nemmeno la briga di censirli, perché troppo al di sotto dei loro rovinosi standard. Eppure, quando arrivano i nostri, ogni cosa, per incanto, riprende il suo posto, come se la normalità cominciasse a generare normalità, dando un ordine logico a tutto ciò che fino a quel momento era sembrato caotico e irredimibile. Da quel momento in avanti qualcuno sembra dirci che l’umanità è qualcosa di preciso, solo quella cosa, e che ogni effrazione di quell’identità apre voragini impossibili da colmare, ma soprattutto che quando si vuole fare a meno di amore, amicizia, solidarietà, si sta agendo nel Dna della nostra specie, condannandola ad una lunga agonia. 

La scena finale, nella sua somma semplicità è un autentico momento di redenzione, ma non potrebbe essere più ordinaria, un catalogo di quotidianità che ci fa sentire a casa, ricordandoci da che parte conviene volgere lo sguardo, se vogliamo ancora salvarci dalla grande bruttezza.

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