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Riguardare con cura

Riguardare con cura

A cura di Domenico Barrilà

Abusi di soggettività, la difficile arte di bussare con garbo alla porta dell’infanzia

Una mamma, un papà, una maestra, un adulto, un qualsiasi adulto, non devono mai stancarsi di cercare un punto di equilibrio che tenga conto dei diritti dei più piccoli, senza i quali non c’è infanzia né vi sono fondamenta solide per il mondo

Stig Dagerman, in poche righe, e forse senza volerlo, descrive la più mastodontica sovrapposizione di mondi a noi nota. Quelli degli adulti su quelli dei piccoli.

“Mettiamo che siano le sette di sera. Fuori è tutto buio. Certi animali si addormentano, mentre altri si svegliamo e si addentrano nel bosco. Tu hai costruito sul pavimento della cucina una torre altissima. Più alta di così non può diventare, altrimenti crolla. Per questo vai alla finestra e rimani a guardare un camion addormentato e una stella quasi rossa. Proprio in quel momento ti chiama la mamma: ‘Olle, è ora di andare a dormire’.
Però è strano, tu non sei per niente stanco. Potresti tranquillamente rimanere alzato tutta la notte. Si, riusciresti tranquillamente a camminare sulle mani fino in Cina, se ti lasciassero restare alzato abbastanza. Ma non puoi. Devi ubbidire”.

Una simile circostanza, Stig poteva solo immaginarsela, desiderarla, la sua mamma lo aveva abbandonato da piccolissimo e il padre era lontano, faceva il minatore dalle parti di Stoccolma, non c’era nessuna mamma a chiamarlo per nome e appena un frammento di papà, che il bambino poteva evocare solo con la fantasia. Crebbe coi nonni paterni. Vecchi e bambini, uniti da un potente bisogno d’affetto, sovente si rendono complici.

Non poteva Stig, dunque, conoscere la sensazione di appartenenza che ti trasmette una madre quando ti invita ad andare a dormire, forse era questo, in fondo, ciò che egli desiderava, qualcuno che lo chiamasse. Possibilmente tenendo conto del fattore tempo e del senso di opportunità. Una donna mi racconta che quando era piccola godeva di una libertà illimitata, perché i suoi si fidavano di lei, eppure “quando veniva l’ora di cena e le mamme dei miei amici li chiamavano a voce, dal ballatoio della cascina, perché si ritirassero a mangiare, a me mancava qualcuno che mi chiamasse”.

In compenso conosceva bene, il futuro intellettuale svedese, l’ebbrezza dell’appartenere a se stesso, condizione, anche questa che amava, perché poteva spaziare e fare il libero cercatore, chissà se tutto questo possiede qualche legame con la scelta di diventare anarchico, con lo sviluppo di quella impagabile libertà di pensiero che ci regalò folgoranti intuizioni, fino al suicidio, avvenuto a poco più di trent’anni.

Quelle parole di Dagerman bambino, tuttavia, nascondono una domanda per noi adulti, sulla quale indugio da anni, ossia quanto abbiamo impoverito il mondo intero togliendo la parola alle nuove generazioni, parlando al loro posto, presumendo che esista una gerarchia naturale, fondata sull’anagrafe e non sul reale valore dei contributi.

Chiunque si occupi di bambini e di ragazzi, a qualsiasi titolo, dovrebbe chiedersi se abbia mai partecipato a questo doppio abuso di soggettività. Da una parte, spedirli a letto a prescindere da ciò che stanno trafficando in quel momento, senza considerare il loro desiderio di osservare camion addormentati e stelle rosse. Dall’altra, dimenticare che i bambini amano essere reclamati, chiamati per nome, perché così pare loro di esistere, di essere annidati nel pensiero e nel cuore di qualcuno.

Una mamma, un papà, una maestra, un adulto, un qualsiasi adulto, non devono mai stancarsi di cercare un punto di equilibrio tra questi due diritti, senza i quali non c’è infanzia né vi sono fondamenta solide per il mondo.     

* Psicoterapeuta, analista adleriano

Dal blog https://vocedelverbostare.net/

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