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#UNMINUTODILIBRI

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A cura di Eliana Camaioni

Un minuto di testi, interviste, novità e retroscena, dedicato agli scrittori siciliani e alle loro opere. Un format di Eliana Camaioni, scrittrice e blogger, che non ha il dono della sintesi e romanza pure la lista della spesa, ma che ha dedicato ai libri la sua vita. Una vita in vacanza, sotto il sole della Sicilia in cui è nata.

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Messina protagonista nel noir di Cacopardo che a #unminutodilibri si racconta: "Questo, l'ultimo romanzo di Agrò"

A tu per tu con l'autore di "Io, Agrò e il generale". Nel giallo si muovono due attori in scena, il generale Parcrazio "Razio" Lotale, e l'ex magistrato Italo Agrò, militante comunista in gioventù. L'ultimo nato dell'autore, in una città respirata nelle sue strade, nei suoi negozi, che si allunga fino a una Letojanni fuori dal tempo

Un giallo classico che scivola nel noir, due indagini scottanti a carico dei due protagonisti, un narratore onnisciente nei panni di sè stesso che osserva, sornione, l'aggrovigliarsi e il dipanarsi delle indagini. Questo è "Io, Agrò e il generale", l'ultimo nato di Domenico Cacopardo, per i tipi di Marsilio. Una Messina respirata nelle sue strade, nei suoi negozi, intrisa di quell'amore che abita l'anima di Cacopardo, che si allunga fino a una Letojanni fuori dal tempo.

Qui si muovono i due attori in scena, il fascistissimo generale Parcrazio "Razio" Lotale, e il sapiente e umano Italo Agrò, integerrimo ex magistrato, militante comunista in gioventù. Una banca in odore di mafia e un delitto efferato nella Capitale, questi i due casi che impegneranno Lotale e Agrò, che raccontano una Sicilia "buttanazza" e incantevole al contempo, per dirla con le parole misogine e sessiste di Razio Lotale. Una Sicilia che ha sete di Libertà e Giustizia, come invece la definirebbe lo straordinario Italo Agrò.

L'intervista 

Cominciamo dall’inizio. Anzi, dalla fine. O meglio: dalla fine e dall’inizio, da quella cornice circolare che mi piace definire “la stanza dello scrittore”, quel luogo incantato che ogni autore crea attorno a sé e che diventa il palcoscenico, reale e metafisico, delle proprie creazioni. Un luogo di cui mogli e mariti di ogni artista sono inconsciamente gelosi, perché è il luogo sacro, circolare, che li esclude dalla vita degli artisti che hanno sposato. Ho provato una grande emozione nell’entrare nello studio di Mimì, l’ho considerato un onore.

Già: credo che molti scrittori, poeti, pensatori abbiano, debbano avere, un luogo per la loro personale intimità, nel quale scrivere, meditare, vivere la parte più spirituale della vita. Per me lo fu, sino al 2006, anno in cui lasciai Letojanni, lo studio del bisnonno borbonico. Oggi è il mio studio nel casale umbro in cui trascorro parte dell’anno. E in esso ho trasportato tutto ciò che mi apparteneva in Sicilia, compreso il sasso levigato della mia anima.

Il capitolo iniziale e quello finale sono, ai fini della narrazione, quel ‘cantuccio’ manzoniano in cui Mimì scrittore si rifugia, per stendere trama e ordito della storia dapprima, e per tirare le fila di tutto poi. Chiedendo ai personaggi ciò che il lettore si stava giusto chiedendo...

Fisiologicamente mio, il mio studio mi ha visto scrivere e stracciare, stracciare e riscrivere, sin da quando ho cominciato, negli anni ’50, ancora liceale.

E’ in questo luogo sacro che avviene l’incontro, e il congedo, con Italo Agrò e Pancrazio Lotale, altrimenti detto il generale. Due personaggi in apparenza antitetici (uno dichiaratamente fascista, l’altro militante comunista, uno misogino e quasi alessitimico, l’altro empatico e di grande spessore umano), eppure accomunati da nobili ideali: giustizia e onore, Legalità e Sicurezza (valori che Domenico Cacopardo, magistrato, mette in maiuscolo). E mi viene da pensare che siano gli stessi che muovono il Mimì scrittore. Dico bene? 

Una sorta di antropomorfizzazione dei personaggi che, in definitiva, rifiuto. Io sono io e Agrò è Agrò. Lotale è Lotale un donchisciotte siciliano portatore di tutte le nostre tare, dal maschilismo al senso esagerato di sé. Ma anche di qualche virtù, come la capacità di affrontare da solo l’ingiustizia, pensando di placarla. Come avrà notato nella lettura tra me, io narrante, onniscente narratore, i protagonisti della vicenda c’è una significativa cesura, un distacco che mi permette di esercitare la suprema vis dell’ironia, senza mai cadere, spero, nel farsesco, ma sempre consapevole della relatività pirandelliana di uomini e situazioni.

“Tocca a te, Mimì, il ruolo dell’onnisciente narratore” si legge a pag.17. Un gioco di punti di vista, quello che attraversa l’intero romanzo; un sapiente e raffinato espediente che rende giustizia del carattere dei personaggi: tutta la narrazione è dominata dal prepotente “io-Ego” del generale, stemperato dai capitoli in cui, con mano leggera, interviene l’onnisciente narratore e la figura discreta e morbida di Italo Agrò, pennellata in modo dolce e garbato, uno sguardo obliquo come il sole che filtra da una tenda regalando contorni ambrati.  Flaubertiano, volutamente ostico al lettore il primo, e Virgiliano, colmo di pietas il secondo. Un gioco raffinato, in cui il significante regge e connota il significato. Ho visto giusto?

Non sta a me compiere un’operazione nella quale si potrebbe sostanziare una sorte di autocompiacimento. Certo, questo è un mio romanzo, nel quale mi riconosco, diverso e nuovo rispetto alla precedente produzione. In esso, infatti, realizzo -lo spero- un certo distacco dalla storia che mi consente di mettere in scena molte cose della mia terra molte cose dell’umanità che mi appartiene. 

E poi arriva a pagina 182, in busta chiusa, il cuore della storia. “La giustizia è diventata un’utopia”, recita un promemoria riservato. E’ così? 

Un cristiano direbbe che la giustizia è cosa divina non umana. Io che non credo, so che la giustizia è un valore relativo, umano, nel quale si sostanzia l’approssimazione possibile dell’uomo alla verità. Niente di più, niente di meno. Come constatiamo tutti i giorni la verità è sempre più irraggiungibile, utopica. Viviamo e dovremmo vivere nel modo più vicino al concetto di giustizia che alberga in ognuno di noi.

I luoghi della storia attraversano tre città, Messina Roma e Letojanni. La Capitale per quel tanto che basta alla narrazione, Letojanni è un affresco della memoria, Messina invece vive e pulsa attraverso i suoi negozi, i ritrovi storici come il Select che non esiste più, la via Tommaso Cannizzaro percorsa a piedi. E poi i suoi piatti, le sue espressioni gergali, la sua gente che viene ritratta in modo caravaggesco senza risparmiarne sciatterie e pressappochismo. Un omaggio a questa città? 

Sono vissuto poco a Messina, un po’ per la guerra che ci fece sfollare a Letojanni e a Melia. Un po’ perché nel 1947 mio padre fu trasferito al mitico Nord. Ma Messina fu la mia Gerusalemme, luogo dell’anima, al quale tornavo ogni anno e più volte l’anno. La Messina del viale alberato da numerosi platani, dei tram, delle pasticcerie familiari come Marotta al Ponte Americano, alle osterie trattorie come Donna Giovanna. E ho percepito il trasformarsi di Messina in non-luogo, area di transito per il traghettamento. La scarsità spaventosa di visitatori intorno ai nostri 2 Caravaggio rende bene l’idea di quanto manchi un’idea storica ed attualizzata del ruolo di Messina nel Rinascimento e sino al Settecento inoltrato. Un ruolo al quale ogni classe dirigente dovrebbe aspirare. Una restituzione, insomma, della quale farebbero necessariamente parte i nostri Caravaggio: più e meglio dei Bronzi di Riace, potrebbero essere una delle prime attrattive del territorio peloritano.  I nostri Caravaggio, i nostri dipinti, le nostre statue non debbono viaggiare per mostrarsi al mondo. Il mondo deve venire a vederli lì ove furono creati.

Dubito che Italo Agrò si sia congedato dai suoi lettori. Vero, Mimì?

Mi creda: questo è l’ultimo romanzo nel quale si trova un «cameo» di Italo Agrò. Il mio prossimo romanzo, che sarà -almeno nelle intenzioni attuali- l’ultimo è scritto ed è in mano all’editore. Senza Agrò. Mi fermerò: ho 85 anni presto sarà tempo di migrare.

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