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Cronaca

Tano Cimarosa, l'ultimo caratterista siciliano

La partenza per Roma, i dissidi con la famiglia di origine, il bar a piazza Indipendenza dove offriva i pasti agli attori meridionali e quel ciak di Zecchinetta tenendosi i pantaloni, la lapide. I ricordi del nipote di un artista dimenticato dalla città che amava

Di Tano Cimarosa si è già scritto della sua carriera anche sotto forma di documentari. Meno del rapporto umano di un artista completo (non era semplicemente un attore caratterista) con la sua terra di origine che lo dimenticò in fretta (c'è solo il piccolo teatrino di Casa Serena dove si spense che lo ricorda) rispetto ad altri meno folti di arte e produzione. Cimarosa fa venire in mente la vecchia storia di una Messina che perse la sua stirpe nel 1908 in quella terribile notte di dicembre. Per tutti quelli che si ostinano a credere a un altro alibi dopo 112 anni e una quarta generazione nata da quelle macerie questa lettura non può che fare bene. Cimarosa, all'anagrafe Gaetano Cisco, faceva parte della prima generazione postsisma (si dice che nacque per strada in Calabria per il lavoro della famiglia prima del rientro in città) e pochi mesi prima di morire nel maggio 2008 espresse al nipote Salvatore Arimatea il desiderio di spirare lì dove tutto era cominciato. Arimatea, regista dal sangue artistico dei Cisco, ci porta agli ultimi anni dello zio che negli anni Cinquanta si trasferì a Roma (un obbligo anche oggi per chi vuol provarci sul serio) per "il cinema" lasciando tutto e tutti, parenti compresi che forse non gli perdonarono mai quella scelta di vita. 

"Lui ci teneva a essere sepolto a Messina e ho esaudito il suo desiderio, ero un suo riferimento, condividevamo la passione per il cinema, mio zio era un artista a 360 gradi, lui non studiava l'arte, ce l'aveva nel sangue, bastava fermarlo per strada o in piazza Indipendenza a Roma al famoso bar che ti raccontava un aneddoto e fermava l'attenzione di tutti, aveva l'arte del racconto". Cimarosa nacque puparo (al Teatro Vittorio Emanuele si tenne una mostra con i suoi pupazzi di cartapesta, ne regalò diversi a Sordi e Manfredi), dipingeva, scriveva, suonava dentro e fuori il suo appartamento sulla Tiburtina e seppur distante dalla Sicilia nei suoi viaggi in Canada e negli Stati Uniti "quando gli davano carta e penna disegnava l'isola e metteva un punto su Messina...ovunque andasse ricordava la sua terra". In quel bar di piazza Indipendenza quando già il teatro lo fece esordire e conoscere e il cinema con Zecchinetta de "Il giorno della civetta" gli diede la notorietà offriva pranzi e cene a siciliani e meridionali che sapevano della tana romana di Tano: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Lino Banfi furono suoi ospiti.

Zecchinetta, buona la prima...

Cimarosa non era un nome d'arte, si chiamava così anche il padre di Tano, la famiglia era una compagnia viaggiante teatrale. Ma con la sua famiglia di origine non fu un gran rapporto dopo la partenza per Roma. "In Zecchinetta - dice Arimatea - c'è tanto di Tano, se non tutto, lui era siciliano anche quando girava western, pensa che Damiano Damiani, uno dei registi più rigidi del panorama, lo lasciò libero di esprimersi e in una scena a Tano caddero i pantaloni che riuscì a tenere con le mani, Damiani lasciò la ripresa come venne perché sapeva che la seconda non sarebbe stata perfetta come la prima; ho avuto l'onore di avere la sua ultima interpretazione cinematografica nel mio film Buonanotte Fiorellino, una sera a piazza Duomo era chiuso in auto ed era furente, impaziente a causa di problemi tecnici tanto che la troupe era impaurita che mandasse tutto all'aria e invece appena riprendemmo lui rientrò immediatamente nel personaggio, fu un caratterista unico, il cinema oggi non ha più esponenti di quel calibro, c'è Tony Sperandeo per citare davvero uno dei pochissimi". Tra i Sessanta e i Settanta Cimarosa pensò anche di aprire la strada a giovani attori: Ornella Muti e Giuliano Gemma, ad esempio, in un cinema casereccio e vitale. "Quel cinema non esiste più, ci sono grandi attori in Italia ma non sono stati rimpiazzati i caratteristi di un tempo e dunque riprodurre quell'epoca è impossibile". 

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La lapide

La sua morte nel 2008 passò inosservata, Messina fu indifferente ai funerali alla Chiesa del Carmine e lo ricordarono in pochissimi (Massimo Mollica e Nino Frassica) la città dimenticò uno dei suoi figli tanto che al Gran Camposanto il marmo posato a terra restò per anni nel degrado prima dell'impegno di pochi e la decisione dell'allora assessore Daniele Ialacqua che omaggiando l'arte di Cimarosa lo trasferì al famedio tra gli uomini illustri di Messina. "Fu una vicenda lunga e farraginosa - ricorda Arimatea - con una burocrazia lunghissima, a Messina rendiamo sempre definitivo quello che dev'essere provvisorio. Vorrei aggiungere che non comprendo come mai non vengano intitolate strutture degne di questo nome ad attori che hanno esportato nel mondo il nome di Messina, non credo che possa bastare l'intitolazione di una strada in periferia, penso a mio zio ma anche ad Adolfo Celi che vedo come dei dimenticati rispetto ad altri mentre meriterebbero un ricordo maggiore dalla loro città". Arimatea continua a credere nel cinema. E attende la riapertura delle sale, causa Covid, per mostrare al pubblico il suo ultimo film, con il Centro artistico mediterraneo, "Fiore d'agave": una storia che prende il nome dalla pianta tropicale che caso unico muore fiorendo. Come le produzioni degli artisti veri che restano sempre in vita. 



 

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