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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

Vola da una finestra del Policlinico, ospedale e primario condannati a un risarcimento di 500 mila euro

La ragazza era ricoverata nel reparto di neuropsichiatria infantile al nosocomio di Gazzi e ha riportato una invalidità permanente del 50%. Dopo una prima archiviazione del caso i magistrati hanno disposto un maxi indennizzo a carico dell'allora primario e dell'azienda

Si trovava ricoverata nel reparto di neuropsichiatria infantile dell'ospedale "G. Martino" di Messina, la giovane di 18 anni che, dopo un volo da una finestra, ha riportato una invalidità permanente del 50%. I fatti risalgono all'agosto del 2003. La procura aveva inizialmente deciso di archiviare il caso.

Una risoluzione che la famiglia della giovane non aveva accettato. Il ricorso, presentato dall'avvocato Pippo Trichitta, difensore della 18enne, ha consentito, invece, di arrivare a una sentenza che condanna il Policlinico a un maxi risarcimento. Si tratta di un importo di quasi 400 mila euro addebbitato all'azienda ospedaliera. I restanti 135 mila euro sono stati imputati, invece, al primario in carica nel reparto all'epoca dei fatti.

 "L'atto lesivo è stato reso possibile da una condotta macroscopicamente negliente degli operatori dell'Azienda Ospedaliera - si legge negli atti - resa ancor più grave dalla consapevolezza che il reparto nel quale era ricoverata la ragazza era destinato ad ospitare pazienti psichicamente fragili". 

Le motivazioni della sentenza 

Ma sono anche altri gli stralci della sentenza del giudice Francesco Catanese, a destare interesse. "Qualsiasi struttura sanitaria – si legge nelle motivazioni – nel momento stesso in cui accetta il ricovero di un paziente, stipula con esso un contratto dal quale discondono due obblighi autonomi e distinti consistenti, per un verso nel dovere di apprestare al paziente tutte le cure richieste dalla sua condizione e, per altro verso, in quelli di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela giacchè tale protezione costituisce per tali soggetti una parte essenziale della cura". 

"La struttura sanitaria, dunque, assume non solo l’obbligazione concernente la prestazione di ricovero e cura ma anche tutte le obbligazioni accessorie e strumentali finalizzate al suo esito positivo e, con esse, anche quella di salvaguardare la salute del paziente da atti autolesionistici da lui realizzabili e ciò, a maggior ragione, ove tali condotte si profilino come possibili o pronosticabili in ragione della patologia di cui il soggetto è affetto", si legge ancora. 

"Pertanto, ove un paziente ricoverato per disturbi mentali tenti il suicidio riportando lesioni personali, la struttura sanitaria che l’aveva in cura risponde di tali lesioni a prescindere dal carattere volontario od obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto, non potendo quest’ultimo condizionare l’obbligo di sorveglianza da parte del personale sanitario", prosegue.

Ma secondo i giudici c’è di più: né la capacità di intendere e di volere, né l’assoggettamento del paziente ad un trattamento sanitario obbligatorio sono preusupposti necessari perché sorga l’anzidetto obbligo di vigilanza e protezione. "L’obbligo in questione, infatti, scaturisce ipso facto dall’accettazione del paziente e, come tale, prescinde dalla capacità di intendere e di volere di quest’ultimo – né esige che lo stesso sia sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio – giacchè anche una persona perfettamente capace di intendere e di volere può avere bisogno di vigilanza e protezione per evitare che si auto-procuri un danno, come nel caso di degente non autosufficiente.
Pertanto, l’obbligo di vigilanza e protezione del paziente grava sulla struttura sanitaria nei confronti d tutti i pazienti: malati di mente e malati di corpo, capaci o incapaci di intendere e di volere", aggiunge Catanese. 

Altro passaggio significativo nelle motivazioni della sentenza anche la necessità di evitare "fattori di rischio” nella struttura o “insidiosità dei luoghi”. Come nella specifica ipotesi di suicidio per precipitazione è stato essenziale verificare anche quanto fosse facile accedere al luogo in cui è avvenuto il fatto. Anche in considerazione del disturbo bordeline della ragazza il Collegio ha rimarcato come dalla documentazione medica non risulti alcuna valutazione del rischio suicidario nonostante nel corso del ricovero si fossero verificati alcuni eventi che avrebbero potuto rappresentare un campanello d’allarme.

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