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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Cronaca

Violenze perché non voleva sposare suo cugino, il Tribunale le riconosce la "protezione sussidiaria"

La sentenza per una donna tunisina sostenuta in giudizio dall'avvocato Picciotto. In caso di rientro nel suo Paese rischierebbe di subire nuovamente atti di violenza di genere a causa del suo rifiuto di un matrimonio combinato

Se rientra in Tunisia rischia di subire nuovamente atti di violenza di genere. Con questa motivazione il Tribunale di Messina, sezione specializzata in materia di immigrazione, presieduta da Corrado Bonanzinga , ha riconosciuto a una una donna tunisina il diritto alla protezione sussidiaria in base all'articolo 14, lettera b) del D.Lgs. n. 251 del 2007.

L'avvocato ha sostenuto che il suo diritto alla protezione doveva essere riconosciuto a causa della mancanza di protezione da parte dello Stato in Tunisia e del rischio di violenza di genere che avrebbe dovuto affrontare se fosse tornata lì.

La donna infatti era stata vittima di violenza fisiche e psichiche, per aver opposto, “nell’esercizio della sua fondamentale libertà di autodeterminazione, un rifiuto ad un matrimonio combinato, subendo, di conseguenza, atti di violenza fisica e psichica tali da essere ricondotti, per gravità e sistematicità, nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti”.

Quando ha affrontato il processo era incinta di sei mesi. La donna ha raccontato di aver lasciato la Tunisia a luglio del 2021 per aver avuto contrasti con la famiglia che si opponeva al suo matrimonio in quanto “promessa in sposa ad un cugino paterno”.

Mentre era in vita mio padre – è il racconto della donna – la famiglia accettava la relazione con l’attuale mio marito, ma alla sua morte avvenuta 2018 hanno tentato di separarli.

“Malgrado il rifiuto, ho continuato a vedere mio marito con il quale ci sposammo in data 22.08.2019 e con cui andai a vivere a Sfax. Qui ci raggiunse la mia famiglia nell’ottobre del 2019 e fui costretta, con la forza, a ritornare a casa mia dove fui trattenuta per circa 15 giorni. Malgrado ciò, sono riuscita a scappare e a ricongiungermi con mio marito. In quel periodo era in stato di gravidanza che a motivo delle aggressioni fisiche dei miei familiari, fui ferita alla schiena ed ebbi una emorragia. Per tale motivo fui operata e ricoverata in ospedale dove ebbi mio figlio in modo prematura. Il fatto fu ripreso da alcune telecamere i cui video furono consegnati alla polizia locale, ma non diede seguito ad alcun provvedimento”.

Dopo il ricovero era tornata col marito e la figlia, ma il suo compagno perse il lavoro perché non voleva andare in Libia con la ditta per cui lavorava per non lasciarla sola con la bambina visti ance i precedenti di aggressione da parte dei familiari.

Il marito aveva aperto anche un’attività commerciale, senza autorizzazione, distrutta in un incendio appiccato dal cugino a cui era stata promessa in sposa dai familiari. E’ a questo punto che decidono di venire in Italia

La donna ha raccontato che anche il marito era stato aggredito e accoltellato dai parenti di lei.

“Nella fattispecie in esame – ha riconosciuto il giudice - il matrimonio imposto ai danni della ricorrente attraverso la reiterata violenza fisica e psichica, tale da averne determinato la fuga, integra certamente una violenza di genere e, in quanto tale, rientra tra le ipotesi di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 12647/2022). In particolare tale violenza va qualificata anche in termini di grave violazione della dignità, e dunque trattamento degradante che integra un danno grave, la cui minaccia, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, può provenire anche da soggetti diversi dallo Stato, qualora le autorità pubbliche o le organizzazioni che controllano lo Stato, o una sua parte consistente, non possano o non vogliano fornire protezione adeguata (Cass. 606/2023)”.

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