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Natale, notte di favole e atmosfere: cinque ricordi di grandi scrittori da Verga a Camilleri

Cornamuse, luminarie ma anche miserie e nostalgie. La festa del Natale tocca nel profondo anche chi non crede. Una ricorrenza che non poteva mancare di ispirare narratori e poeti siciliani. Che così la raccontano...

Cornamuse, luminarie ma anche miserie e nostalgie. La festa del Natale tocca nel profondo anche chi non crede. Una ricorrenza che non poteva mancare di ispirare narratori e poeti siciliani. 

Giovanni Verga ne scrive almeno due volte. La prima quando descrive l’atmosfera del paese all’avvicinarsi della novena: “Come s’avvicinava la novena di Natale, i Malavoglia non facevano altro che andare e venire dal cortile di mastro Turi Zuppiddu. Intanto il paese intero si metteva in festa; in ogni casa si ornavano di frasche e d’arance le immagini dei santi, e i fanciulli si affollavano dietro la cornamusa che andava a suonare davanti alle cappellette colla luminaria, accanto agli usci” (“I Malavoglia”).

La seconda quando afferma che il Natale è soprattutto gelo e fiamma: “Ieri fu il Natale (…). I signori Valentini son venuti tutte le sere della Novena a giocare insieme ai miei parenti. Li ho uditi parlare e ridere nella stanza da pranzo, ove era acceso un buon fuoco, cogli usci ben chiusi, e il vento che mugolava al di fuori, e qualche volta anche la grandine che scrosciava sui tetti. Come devono esser stati felici lì in crocchio, ben caldi, ben riparati, mentre al di fuori faceva freddo e pioveva!” (“Storia di una capinera”).

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Per altri, come Andrea Camilleri, il Natale è tempo di ricordi: “Se al rintocco delle campane di mezzanotte che chiamavano alla Santa Messa io mi sono abbandonato a un pianto incontrollabile è stato perché all’improvviso mi sono tornati a mente i miei cari Defunti (…). Mentre nasceva il Bambinello Gesù (…) mi sono abbandonato all’onda dei ricordi e dei rimpianti” (“La concessione del telefono”).

Lo stesso accade per Vincenzo Consolo: “Ai primi paratori che in su le strade stendono archi di luminarie, montano cieli, gallerie d’abbagli; ai primi festoni d’agrifoglio e palle, ai primi abeti stralucenti dentro e fuori stande, upim, rinascenti, ai cordami d’oro e argento, alle scie e ai lampi (…), mi prende una malinconia, un’ansia che m’impedisce ogni decisione, ogni programma. È Natale! È tempo di tornare. Giù al paese” (“Natale al paese”).

Neanche Luigi Pirandello, che certo non era un osservante, manca di cogliere quell’atmosfera: “Era festa dovunque: in ogni Chiesa, in ogni casa; intorno al ceppo, lassù: innanzi a un Presepe, laggiù: noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori (…). E mi pareva di andare frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo “Buon Natale!” e sparivo” (“Sogno di Natale”).

Ma certo non per tutti il Natale è uguale. Lo sottolinea Leonardo Sciascia: “Come al solito, in una paginetta di diario, i ragazzi mi raccontano come hanno passato il giorno di Natale (…). Non ho mai letto niente di più triste nelle cronache, spesso desolate, che i ragazzi mi fanno delle loro giornate (…). Mai, come attraverso questo piccolo fatto, la miseria mi è apparsa in tutta la sua essenza di cieca e maligna bestialità” (“Le parrocchie di Regalpetra”).

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