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Terremoto del 1908, storie dalla polvere delle macerie: quello sguardo smarrito della piccola Bianca

Dalle pagine struggenti del giornalista Giacomo Longo la ricostruzione dei fatti che seguirono alla catastrofe e le coraggiose accuse al governo italiano per i ritardi nei soccorsi e nella prima ricostruzione della città. Con queste storie

La furia iconoclasta del sisma aveva appena cancellato in quaranta secondi quaranta secoli di storia e l’orologio postale segnava fisso le ore 5.21 all’alba di quel fatidico 28 dicembre. Chi mai avrebbe potuto riconoscere in quel paesaggio tanto spettrale la bianca Messina, l’aerea regina del Peloro che si distendeva sulle azzurre acque del breve braccio di mare che separa l’isola dal continente?

Colonne di fumo s’alzavano lente dai tetti dei palazzi, la più nera e minacciosa incombeva sul Municipio mentre l’albergo Trinacria, crollando in macerie, aveva da poco stritolato nel suo abbraccio di morte gli interpreti dell’Aida, la cui prima era stata da qualche ora applaudita a scena aperta al Teatro Vittorio Emanuele. Dappertutto, sulla cortina del porto il cui livello s’era abbassato di una buona misura sotto le spinte telluriche, era un viavai di gente che vi s’affollava in preda a un terrore senza nome. Messina, in men che non si dica, era diventato un solo immenso fantasma alla ricerca della propria identità perduta, del sogno che di colpo s’era tramutato in spietata, tremenda realtà.

Chi mai potrebbe immedesimarsi appieno nello stato d’animo di coloro i quali, smarrito ogni possibile punto di riferimento, s’aggiravano adesso per le vie sventrate inciampando sui cumuli di rovine che nel frattempo s’erano ammassate ovunque in luogo delle case, delle ville, dei sontuosi palazzi del centro? Messina la nobile, la città che si presentava ai viaggiatori che la fronteggiavano dalle navi pronte ad approdare nel suo splendido porto falciforme con l’abito della sua scenografica Palazzata a mare, non esisteva più.

Messina non esiste più – titolavano a morte infatti quotidiani, mentre frotte di personalità del mondo della cultura e dell’arte – come Maksim Gorkij, Matilde Serao, Giovanni Pascoli e molti altri – esprimevano in pagine strazianti la divorante commozione di una scena che non si sarebbe più cancellata dai loro occhi. Pascoli, tra tutti, che nell’Università aveva insegnato per cinque lunghi anni, così descrisse la tempesta che aveva annientato Messina: “una potenza nascosta d’onde ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui, dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia”.

E aveva ragione. Rimaneva, della Messina che era stata, l’impronta struggente nella sua natura ormai acquietata, in quell’istmo che Edoardo Giacomo Boner aveva definito il “Bosforo d’Italia”. E anche nelle colline, che Antonello aveva dipinto in molti dei suoi ritratti esposti nei musei di tutto il mondo. Messina restava nella storia grazie all’arte che l’aveva resa eterna prima di ogni suo disastro.

Anche la mia famiglia, come tante altre, ha un credito aperto con il terremoto. Un credito che è stato riscosso grazie alle pagine, altrettanto struggenti, di Giacomo Longo. Longo, giornalista di vaglia che l’età aveva reso cieco come il mitico autore dei più famosi poemi epici greci, diede alle stampe nel 1912 “Un duplice flagello”. Un “pamphlet” - lo definiremmo oggi – che, ricostruendo i fatti che seguirono alla catastrofe, accusò con coraggio il governo italiano responsabile, in base alla sua analisi, di colpevoli ritardi nei soccorsi e nella prima ricostruzione della città.

Una denuncia vibrata che Longo non esitò a rendere pubblica, nella quale s’agita, oltre alla tensione civile che ne ha motivato la genesi, anche e soprattutto l’emozione e il pianto nel vedere la propria città ridotta a un ammasso di ruderi. Ruderi che la posterità avrebbe purtroppo moltiplicato nella fredda applicazione di un piano regolatore insensibile al valore storico di quei molti monumenti e opere d’arte che non resisterono al vento della ricostruzione.

In cima a un grappolo di quei ruderi – e qui vengo al dunque – sembra a Longo d’intravedere, nella nebbia incipiente della sua vista già compromessa, una figura di bimba. Una bambina bellissima e sperduta, che aveva perso l’intera sua famiglia nel crollo della loro casa situata nella centrale via Garibaldi.

Ne descrive lo sguardo assente, perso in pensieri che forse non son altro che lampi di ricordi, pensieri di una bambina che tutt’a un tratto si ritrova sola in un ambiente sconosciuto, in una città che di città ha perso ogni possibile connotato. E non succede forse lo stesso a chiunque di noi, quando un evento imprevedibile sconvolge ogni nostro equilibrio, scompaginando da cima a fondo l’intera nostra esistenza?

“Seppi più tardi chiamarsi Bianca Chigo” chiosa infine Longo, chiudendo la vicenda in un nome e un cognome che al lettore comune poco o nulla potrà dire ma a chi stende adesso queste poche righe evoca un passato di famiglia entrato ormai a far parte dei geni che ne costuiscono la nervatura. Bianca era, infatti, l’ultima superstite della numerosa famiglia di Teodoro Chigo, un piemontese venuto in Sicilia dove aveva sposato Concetta Ciampoli, figlia del cavaliere taorminese Pietro Ciampoli. La famiglia Ciampoli, emigrata dalla Toscana nel Duecento in seguito alla guerra tra Guelfi e Ghibellini secondo la Cronica di Giovanni Villani, si era stabilmente trapiantata a Messina e Taormina, dove nel Seicento aveva acquistato il palazzo che porta ancor oggi il nome del casato.

Bianca e i suoi sette fratelli e sorelle, insieme ai genitori, perirono nel disastro e sono oggi sepolti nell’ossario della cappella di famiglia ospitata nel Cimitero Monumentale di Messina che Teodoro Chigo, quasi per un oscuro presentimento, aveva fatto costruire nel 1907, appena un anno prima del terremoto.

Dopo il furore delle scosse che avevano raso al suolo la città, Bianca era riuscita da sola a venir fuori dalle macerie e ad appollaiarsi su un gruppo di pietre per guardare, per l’ultima volta, il distendersi maestoso di Messina su quello stesso mare dal quale s’era sprigionata l’onda mortale.

Bianca Chigo era la cugina di mia nonna, figlia di Isabella Ciampoli sorella di Concetta. Una cugina che mia nonna non conobbe mai perché sarebbe nata qualche anno più tardi, nel 1911.

Grazie, Giacomo Longo, per averla fatta conoscere a me attrraverso le parole commosse del tuo libro.

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