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Lunedì, 29 Aprile 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Gino Coppedè, storia di un archistar a Messina: la retropia di un falsario della memoria

Dalla fine dell‘800 e per tutto il primo trentennio del XX secolo le sue ville e i suoi palazzi furono uno status simbol per borghesia industriale positivista, sabauda e non. In città inventò una architettura "epidermica" che fermò il tempo proponendo l'idea di un passato consolante ma illusorio. Ma c'è chi ha fatto di peggio...

Quando arrivò a Messina era già un archistar. Era l’Armani dell’architettura.

Lo “Stile Coppedè” è l’unico stile architettonico che porta il nome di colui che l’ho ha concepito, come un contemporaneo stilista di moda, come un Versace o un Ferrè.

Gino Coppedè fu il primo ad inventare un vero e proprio marchio architettonico. Fu il primo archistar italiano. Dalla fine dell‘800 e per tutto il primo trentennio del XX secolo le sue ville e i suoi palazzi, richiestissimi in tutta la penisola, ed anche fuori dai sui confini, furono uno status simbol per borghesia industriale positivista, sabauda e non.

Questo marchio per molti anni qualificò le produzioni della “Ferrobeton” e della “Società Anonima Edilizia Moderna” entrambe di proprietà dei rampolli di Alessandro Cerruti, un armatore di Varazze socio di Casa Savoia nella Lloyd Sabaudo.

I Cerruti furono i primi costruttori che intervennero nella ricostruzione della città peloritana dopo il tragico sisma del 1908.

La loro prima opera fu Villa Costarelli. Un intervento che sostituì la settecentesca villa neoclassica progettata da Leone Savoia. Una villa con un ampio e lussureggiante parco sita alla foce del fiume Annunziata, che dal 1860 fu una delle tante residenze estive dei reali. Danneggiata dal terremoto fu venduta all’ambasciatore Costarelli. Questi affidò, su suggerimento del re, la realizzazione della nuova fabbrica alla “Ferrobeton” dei Cerruti i quali si avvalsero di Gino Coppedè.

Il progetto del fiorentino piacque molto al diplomatico messinese che gli affidò anche la progetto della dimora di città: Palazzo Costarelli. Un edificio che copriva l’intero isolato 223 ove sorgeva l’ex Consorzio Agrario, in prossimità della foce del Torrente Portalegni, attuale via Tommaso Cannizzaro, accanto al Royal Palace Hotel.

Il Palazzo Costarelli fu la prima opera di Coppedè a Messina. In questa occasione d’esordio l’estroso architetto propose all’ambiente peloritano il fiorentinismo più classico, un lessico molto assonante a quello di Palazzo Pitti, compiendo un anacronismo plateale.

L’opera fu anche il primo adattamento dello “Stile Coppedè” alle rigide norme antisismiche. L’architetto toscano dovette rinunciare alla sua caratteristica articolazione dei volumi e ai suoi soliti sorprendenti e funambolici sbalzi. Ecco perché a Messina più che altrove lo Stile Coppedè appare costretto. Ingabbiato a tal punto che Gino dovette concepire una versione epidermica del suo Stile, una variante che resterà unica nel suo universo architettonico e presto diverrà una tipicità autoctona, capace di influenzare tutto l’eclettismo messinese, essendone la matrice.

Costretto a operare in dimensioni volumetriche già date, Coppedè, a Messina, limitò gioco forza la sua cifra stilistica agli involucri, articolando solo le superfici dei prospetti.

Pur costretto a rinunziare agli sbalzi e a sorprendenti combinazioni volumetriche egli riuscì a dare movimento alle fronti dei palazzi operando molto con i chiaroscuri attraverso l’adozione di strutture in alto rilievo, come il giro d’angolo di Palazzo Tremj, o di apparati scultorei a tutto rilievo applicati ai prospetti, come quelli che caratterizzano la decorazione di Casa Cerruti e Caseggiato Cerruti). Espedienti che hanno generato articolazioni volumetriche fittizie ma di notevole suggestione.

Altri espedienti adottati che caratterizza la cifra coppedeana messinese sono: la dinamicità degli intonaci lavorati con l’antica tecnica dei graffiti murali a buon fresco, usando vere e proprio pitturazioni e  il rivestimento in mattoni a scopo decorativo elaborato alla maniera medievale.

Coppedè a Messina, più che altrove, truccò la pelle degli edifici. La sua fu una vera e propria architettura epidermica.

Le sue architetture messinesi rappresentano un lievito reazionario che produsse un eclettismo sterile, anacronistico e socialmente pernicioso che caratterizzò il linguaggio della città risorta dopo il 1908.

Le sue opere, ormai sbiadite, influenzarono tutta l’architettura privata della ricostruzione che risulta inequivocabilmente di marca coppedeana. Quasi in ogni palazzo della nuova Messina si possono cogliere stilemi coppedeani, più o meno marcati.

L’architettura epidermica di Coppedè a Messina

Il suo apparente anacronismo e la sua teatralità d’effetto ebbero la meglio sullo Stile Floreale proposto da Ernesto Basile che in quell’epoca mieteva successi in tutta l’isola interprete di un modernismo progressista che divenne cifra distintiva di tutta la borghesia industriale dai Florio ai Ducrot, etc.

A Messina Coppedè opera per primo su quel tragico azzeramento e lo va compiendo un raffinato esercizio architettonico artigianale proponendo ai messinesi quel passato di cui egli è erudito. Offre la sua tradizione storica senza tentare una rielaborazione di quella autoctona. Questa cifra per quanto estranea risulterà comunque suggestivamente consolante.

Una estraneità che ammicca a quello che era la sua idea della tradizione isolana. Esempi di questo tentativo di commistione improbabile di mondi eterogenei, quello fiorentino e quello siciliano, sono il mascherone di Palazzo Tremj e taluni apotropaismi in Palazzo Arena o nei caseggiati Cerruti. Questa tentata integrazione in alcuni casi si rivela marcatamente vernacolare. Un vernacolo tosco-siculo.

Con questo linguaggio inedito Gino veste gli involucri dell’idea di un passato rassicurante e florido, peccato che si tratta di un passato ultroneo, di un passato di terre lontane che hanno avuto pochi punti di contatto culturale con la Sicilia e con il suo essere cuore del Mediterraneo.

Egli in riva allo Stretto usa un passato mendace poichè, in quella tragica circostanza la bugia era più più comprensibile ed accettabile della spietata verità del presente. I suoi significanti tranquillizzavano l’angosciante prospettiva di un vuoto futuro.

Quel nuovo passato fu funzionale alla costruzione di un blasone per borghesia agraria che si approssima a conquistare la città, avvalendosi un abito propizio a quella occupazione, che ai messinesi sinistrati.

La città dopo il 1908 risorge neo eclettica grazie ad una grande operazione di manipolazione della memoria di cui il fiorentino si fa interprete. Non a caso Manfredi Nicoletti annovera il funambolico architetto fiorentino nella schiera di architetti che definisce: “falsari della memoria”.

Coppedè a Messina ferma il tempo, lo riporta indietro in un passato consolante per quanto illusorio. Pasce la nostalgia con l’idea di un tempo che fu, fantastico e chimerico, nel quale ogni animo affranto dalla tragedia avrebbe potuto attaccare i propri travolti ricordi.

Egli conduce quello che oggi Zygmunt Bauman chiamerebbe un’operazione retrotopica.

Propone un’idea del futuro riferendola alla consolante forma di un improbabile passato ricostruendo la trama di un passato infranto con i fili di un altro passato accaduto altrove.

Dal punto di vista semiotico questa sua proposizione di segni, forme e simboli veicola un’idea opposta allo stimolante progressismo modernista e chiude la città dentro un orizzonte  fantastico e lussuosamente consolatorio.

Se Coppedè a Messina falsificò il passato più di lui, e peggio, lo fecero i suoi epigoni: Vinci, Mallandrino, Fleres, Interdonato, Puglisi Allegra, Peresuttii, Giunta, etc.. Una schiera di passatisti opportunisti che speculeranno sulla ricostruzione della città senza dare nessun contributo creativo, esercitandosi solo in uno sterile manierismo facilitato dall’improbabile uso dell’amalgama di cemento con linguaggi conservatori, regalando alla città una semantica architettonica afasica e priva di ogni valore artistico e culturale, che retrospettivamente assume solo un valore documentario.

Senza il confuso intervento copiativo di costoro l’opera di Coppedè a Messina avrebbe potuto tradursi in un’operazione semiotica efficace, la stessa che qualche anno dopo lo stesso eseguirà a Roma nel Quartiere di via Po. Dove la sua coraggiosa riproposizione di un catalogo della storia dell’arte e dell’architettura italica di marca rinascimentale nella città eterna, in un momento in cui l’ambiente romano riscopriva la sua tradizione imperiale, fu un autentico atto di ribellione. Fu la coraggiosa proposta di una terza via tra l’avanguardia progressista e l’accademia botiana, tra futurismo fascista e monarchia sabauda. Una alternativa che oggi assume un notevole valore artistico e culturale universalmente riconosciuto. Quel quartiere è la forma di un antifascismo anarcoide declinato in forma favolistica ed onirica

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