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Lunedì, 29 Aprile 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Dalla sostenibilità alla transizione ecologica, quando le soluzioni invece di migliorare danneggiano la vita dei cittadini

Le città hanno motivo di esistere solo riuscendo ad assolvere cinque funzioni essenziali per la loro sopravvivenza e per quella di chi le abita. Ecco quali sono e perché finte finalità ecologiche e nuove trasformazioni le hanno dimenticate

Un tempo, non tanto remoto, ci eravamo fatti l’illusione che un nuovo umanesimo urbanistico sarebbe stato possibile.

Furono elaborati nuovi paradigmi per “riabilitare” le città e i loro territori curando le patologie di cui queste soffrono. Fu il momento in cui si concepirono nuove strategie di pianificazione territoriale ed urbana e nuove visioni delle città grazie alle quali si sono sviluppati i concetti di Città Sostenibile, Rigenerazione Urbana, Ri.U.So. (Riabilitazione Urbana Sostenibile), Riqualificazione formale e funzionale degli ambiti antropici, Riabitazione dei nuclei urbani d’antica fondazione, Rifunzionalizzazione dei beni comuni, etc.. .

Tutte strategie urbanistiche che avevano come obiettivo nuovi virtuosi stili di vita, alti livelli di salute pubblica, coesione ed armonia sociale che imponevano il necessario passaggio dalla “scala urbana” alla “scala umana”.

Teorie e pratiche che declinavano la sostenibilità come recupero autentico degli equilibri ecologici perduti e di quelli formali, come abbattimento di rischi antropici e naturali, come qualità energetica, equità sociale ed efficienza economica (Efficienza economica e non sviluppo: lo sviluppo prevede la competizione e contempla vincenti e perdenti, viceversa l’efficienza economica prevede la simbiosi e contempla la ridistribuzione perequata delle opportunità e della ricchezza prodotta da scelte urbanistiche virtuose ed avanzate).

Le trasformazioni degli spazi cittadini secondo i principi delle “Città Sostenibili”, operate con interventi risolutivi sulle funzionalità e sulle ergonomie urbane, avrebbero dovuto produrre una qualità della vita e dei rapporti sociali evoluta ed ottimale.

L'umanesimo urbanistico dismesso

Viceversa assistiamo in questo frangente storico a sopraggiunte nuove visioni “urbanistiche” che impongono l’urgenza di curare le città trasformandole in “Città resilienti”.

Le “Città resilienti” sono quelle città da lungo tempo sottoposte a condizioni di estrema resistenza, a disfunzioni fisiche e sociale che nonostante il grande stress hanno resistito senza collassare del tutto. Queste città più di altre andrebbero riabilitate e sottoposte ad interventi risanatori speciali.

Oggi pare che l’umanesimo urbanistico di cui sopra sia stato dismesso.

Non si parla più di sostenibilità ma di transizione ecologica. Un concetto declinato in modo vago, arbitrario e aleatorio che ha il sapore di essere un eufemismo scaltro per mascherare il subdolo obbiettivo di perpetuare gli scempi di sempre sul territorio, aggravando gli squilibri ecologici e le condizioni di vita nelle città, generando gravi asimmetrie di trattamento sociale funzionali ai nuovi poteri finanziari.

Molti sono gli indicatori che rafforzano i nostri sospetti.

La transizione ecologica non prevede l’uso esclusivo di fonti energetiche alternative pur imponendo il cambiamento degli attuali stili di vita ritenuti molto inquinanti. Essa contempla anche il ritorno alle centrali nucleari. Un corto circuito logico sesquipedale che mette in allarme.

La transizione ecologica punta tutto sulla resilienza. Infatti, uno dei principi fondamentali di questo nuovo credo vuole che le città del futuro siano Città Resilienti. Ma la resilenza di per sè è una condizione patologica. Una condizione di sopportazione e di adattamento al disagio, una resistenza estrema a gravi malesseri, quindi ben lontana da essere la risoluzione delle condizioni di stress.

La resilienza è dunque una condizione limite che va risolta nel più breve tempo possibile, diversamente l’organismo resiliente muore. Puntare sulla resilienza significa portare le città ad adattarsi ad una serie di perdite e di disagi che aggravano le patologie di cui soffrono peggiorando le condizioni di vita di chi le vive.

Adattarsi agli scenari e ai rischi

Uno dei compiti del P.N.R.R. (l’ultima lettera dell’orrendo acronimo sta proprio per Resilienza), che ha tra gli obiettivi primari la transizione ecologica, è quello di creare Città Resilienti. Città capaci di adattarsi agli scenari di criticità e ai rischi cui oggi sono sottoposte e a quelli che allarmisticamente si prospettano per il futuro. Poco o nulla è previsto per abbattere definitivamente i rischi medesimi e contrastare il verificarsi di condizioni estreme.

È come se davanti ad un organismo insultato da un male acuto, invece di puntare alla guarigione, i medici puntassero a cronicizzare il male abbassando solo la vemenza dei sintomi senza curarli. Del resto si sa, un malato cronico convive con i suoi mali, si adatta, finché non schiatta, ma intanto diviene un’ottima fonte di guadagno per medici e case farmaceutiche. Se qualcuno lo guarisse questi ultimi avrebbero notevoli perdite economiche e di potere.

Stiamo andando tutti verso la metafora della “spina del faroto”*, chi dovrebbe risolvere i problemi li gestisce per mantenere perennemente alti i livelli di bisogno e di dipendenza, acquisendo sempre più potere sugli uomini. *:  https://www.messinatoday.it/blog/la-forma-delle-idee/torre-faro-storia-mito-leggende-favole-la-spina-del-faroto.html

Le cinque funzioni per la sopravvivenza

Ricordiamo che le città hanno motivo di esistere solo riuscendo ad assolvere a cinque funzioni essenziali per la loro sopravvivenza e per quella di chi le abita:

  1. Offrire opportunità di lavoro, di studio e di crescita;
  2. Garantire la possibilità di spostamenti veloci ed efficaci e un’agevole mobilità;
  3. Garantire la sicurezza, il riposo e la salute pubblica;
  4. Garantire la possibilità di trascorrere il tempo libero in spazi attrezzati (sport, cultura, etc.);
  5. Garantire la possibilità di socializzare.

Le città resilienti non offrono nulla di tutto questo.

Le linee guida del PNRR e delle varie misure europee non indicano soluzioni risolutive per superare la crisi lavorativa e aumentare i livelli occupazionali, anzi sottraggono ogni giorno opportunità.

Gli spostamenti nelle città sono sempre più limitari e disagevoli e i sistemi di trasporto o di mobilità, spesso figli di logiche inconsulte, non aderiscono alle necessità e alle tipicità dei luoghi.

I livelli di rischio naturale e antropico non vengono abbattuti, al massimo malamente mitigati. I dispositivi di sicurezza suggeriti ed applicati non rendono le città vivibili e tranquille ma trasformano i cittadini in detenuti controllati da telecamere durante l’ora d’aria.

In questo processo di trasformazione urbana eterodiretta non si fa cenno alla centralità di efficaci spazi culturali e di socializzare. Le misure dettate e le soluzioni prese tendono all’abolizione degli spazi di relazione favorendo l’isolamento.

Corti circuiti ideologici

Tutto ciò non si può certo giustificare con il luminoso scopo della Transizione ecologica e dell’abbattimento degli agenti inquinanti.

Insomma assistiamo ad una miriadi di corti circuiti logici, concettuali e scientifici che nessuno purtroppo sottolinea.

Oggi non si parla più del nuovo umanesimo urbanistico, perché non adottato dall’Europa nelle sue linee guida foriere di finanziamenti inconsulti, ma si comincia a concepire e realizzare l’esatto contrario.

Quello che si prospetta è la fantomatica transizione ecologia che nel concreto si traduce in restrizioni della libertà che in altri tempi sarebbero state inaccettabili. Soluzioni che invece di migliorare affannano e danneggiano la vita dei cittadini. Aberrazioni che supinamente vengono assorbite dal mondo intellettuale, tecnico, scientifico e mediatico, soggetti questi che per primi avrebbero il dovere di alzare, in modo consapevole e competente, gli scudi. Ma nulla accade!

Viceversa qualcuno forzatamente impone soluzioni di mobilità urbana evidentemente perniciose, altri mettono limiti ai movimenti e disegnano e teorizzano confini temporali (non ci si può allontanare oltre i 15 minuti), altri ancora pensano di rallentare in modo pachidermico gli spostamenti imponendo limiti di velocità da bradipi (30 km/h).  Quest’ultima soluzione è la più cervellotica. Le città debbono essere organismi in cui scorre la vita non in cui ristagna.

Gli spazi urbani per garantire la qualità della vita e della salute pubblica debbono avere compatibilità antropometrica e antropologica, guai se questo non accadesse o venisse impedito da nuove regole calate dall’alto, astratte e generiche.

Le nuove scelte stanno fortemente alterando la funzionalità urbana, soprattutto quando individuano talune funzioni urbane egemoni rispetto alle altre.

Questo processo forzato e poco democratico di trasformazione delle città non tiene conto che “E’ l’uomo la misura di tutte le cose” come diceva Protagoradi quelle che sono perché sono e di quelle che non sono perché non sono”.

Molto tempo fa Jeremy Rifkin definì i concetti di “finalismo ecologico” e “finalismo sociale” applicati alla pianificazione urbana e territoriale. Ogni progetto urbano, secondo il sociologo statunitense, deve avere come struttura ontologica la qualità ecologica e la socialità.

Ippocrate aveva già allora intuito l’influenza dell’ambiente sulla psiche di chi lo vive: “….alla natura dei luoghi si improntano sia l’aspetto, sia le caratteristiche degli uomini. L’architetto, in primo luogo deve studiare i luoghi e gli influssi che questi possono esercitare su chi li abita assicurando condizioni di salute e una sana nutrizione della vita”.  Fu il primo a capire che la qualità urbana è la matrice della qualità della vita.

Le ricette "teoriche"

Oggi si parla di città di 15 minuti, di velocità massima di 30 km orari, si realizzano piste ciclabili dall’improbabile funzionalità, si pensa alla sostituzione radicale di tutti i veicoli a benzina a favore di quelli elettrici, etc..  Tutte ricette troppo teoriche per essere applicate tout cort in ogni contesto.

Queste soluzioni sono come abiti preconfezionati a taglia unica da far indossare a chiunque, per forza, diversamente si perdono opportunità di finanziamento e di maneggiamento di denaro. Non importa se chi deve indossarli ha la gobba, è sciancato, è troppo alto o è troppo basso.  Un abito siffatto invece di vestire si trasforma in una camicia di forza, in una costrizione che finisce per divenire una ridicola perniciosa aberrazione.

È del tutto evidente che molte di queste soluzioni non sono a misura delle esigenze esistenziali dell’uomo, della sua crescita intellettuale, cognitiva, civile e morale. Ma nonostante ciò si registra unanime plauso.

Questo fenomeno non è più un problema di ordine tecnico o di ordine scientifico, bensì un problema di ordine etico e morale.

Chi trasforma le città deve assumersi la responsabilità sociale oltre che la responsabilità ambientale.

Carl Schmitt sosteneva che: “Non esistono idee politiche senza uno spazio cui siano riferibili, né spazi o principi spaziali cui non corrispondano idee politiche”. Quali sono i contenuti etici di questi modelli, se essi determinano limitazioni antropometriche e perdite antropologiche?

Certamente le idee politiche cui fanno riferimento queste misure non sono né democratiche né umanitarie.

Il passaggio che si sta imponendo nella trasformazione delle città è quello dalla scala urbana alla scala disumana.

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Dalla sostenibilità alla transizione ecologica, quando le soluzioni invece di migliorare danneggiano la vita dei cittadini

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