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La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Da Noto a Matera, quell’arte che contamina la bellezza e l’identità dei luoghi

Installazioni artistiche invadono i centri storici, si collocano presso i monumenti, davanti alle chiese, nelle piazze e in spazi urbani di grande valore artistico e culturale. Ma quando l’opera d’arte qualifica i luoghi e quando invece sono i luoghi a qualificare l’opera d’arte? Ecco alcuni esempi

E’ notizia recente che le sculture che hanno invaso le scalinate della Cattedrale di Noto resteranno ancora fino al 31 ottobre 2021.

“Rafforzando, nonostante la pandemia in corso, il percorso che vede Noto sempre più “Città d’Arte””. Così è stata annunciata la proroga dell’installazione di 6 statue bronzee poste sulla monumentale scalinata del Duomo netino da quasi un anno.

Ma davvero senza queste opere la città di Noto, dichiarata per la sua singolarità ed unicità artistica patrimonio dell’umanità dall’Unesco, perderebbe il suo grande valore culturale e dunque l’interesse di turisti e appassionati di città d’arte?

Installazioni e luoghi d'arte

Realmente queste opere, al di là del loro valore artistico, che nessuno discute, sono elementi che nobilitano la capitale del Barocco Siciliano portata all’attenzione della critica internazionale da eminenti figure come Cesare Brandi e André Chastel?

Veramente queste statue nobilitano il valore artistico della città dalle architetture d’oro realizzate dai maggiori interpreti del Barocco Siciliano come Rosario Gagliardi (Chiesa del SS. Crocefisso, di S. Carlo, di S. Domenico, di S. Francesco d’Assisi, di S. Chiara, di S. Mauro, di S. Maria dell’Arco); da Francesco Maria Sortino (Convento del SS Savatore); da Francesco Paolo Labisi (Chiesa del Crocefisso); da Vincenzo Sinatra (La Basilica di S.Nicolò, Palazzo Ducezio, Palazzo Nicolai)?

Davvero attrarrebbero più visitatori di quelli che giungono per vedere uno degli esempi riusciti, insieme a Grammichele, di città razionalista siciliana ricostruita in altro sito (New Town), dopo il disastroso terremoto del 1693?

Quello che succede a Noto è in linea con uno strano fenomeno che si esperisce in altre città d’arte, in luoghi urbani connotati da un forte Genius loci. Installazioni artistiche che invadono i centri storici, che si collocano presso i monumenti, davanti alle chiese, nelle piazze e in spazi urbani di grande valore artistico e culturale.

Un fenomeno che ha preso molto piede in Italia e che sta contaminando la bellezza dei nostri beni culturali in modo epidemico quasi al pari del degrado in cui versano e del disimpegno di chi li amministra e nulla fa per salvare la loro integrità. Un fenomeno sul quale è tempo di aprire un serio dibattito critico, una seria riflessione sul valore culturale di queste operazioni.

Vi sono luoghi e spazi urbani negletti, privi di identità, privi di storia, emarginati da ogni contesto culturale, che certamente vanno semantizzati, riscritti, scritti meglio, qualificati. Questo ad esempio è il senso della vera “Street Art”: un’esperienza espressiva che irrompe nei luoghi del degrado e con cifre artistiche di notevole livello, con significati iconografici forti, compie plateali operazioni di denuncia attraverso una nuova connotazione artistica del luogo che invade. Il senso dell’operazione è quella di inserire in uno scenario urbano fortemente degradato un elemento contrario: la bellezza.

Una bellezza che veicoli significanti di protesta e di ribellione alla degradazione urbana. Lo stesso vale per altri tipi di esperienze espressive contemporanee di natura concettuale che si installano in luoghi privi d’identità e di valore culturale per sollecitare le coscienze, o che intervengono direttamente sulle grandi architetture veicolando attraverso la fama di queste contenuti di protesta (vedi le mani di Lorenzo Quinn che sostengono Ca’ Sagredo a Venezia; i lupi di Liu Ruowang che invadono le strade di Firenze fino al Loggiato degli Innocenti e che prima ancora avevano assaltato piazza Municipio a Napoli; il dito medio all’insù di Maurizio Cattelan davanti alla Borsa di Milano; i palazzi impacchettati di Christo Yavachev; etc).

Si tratta di meritorie esperienze espressive che determinano processi di qualificazione di luoghi urbani in decadenza o che usano la bellezza per veicolare significanti di protesta e di riflessione filosofica, etica e morale.

Contrariamente a quanto sopra, vi sono luoghi, come la solenne scalinata di Noto, che sono fortemente connotati, che esprimono valori culturali universalmente riconosciuti e sono caratterizzati da integrità e unicità identitaria. Questi luoghi non hanno bisogno di nuove interpretazioni, ma di essere letti e fruiti per quel che sono, o sono stati, per la loro cifra originaria, non c’è bisogno di aggiungere ulteriori contaminazioni, soprattutto se si intende valorizzare e promuovere la loro identità. Questi luoghi hanno solo bisogno di essere promossi e tutelati affinché possano esprimere pienamente il loro valore culturale.

Queste nuove “prassi deformanti” di valorizzazione del patrimonio culturale che contaminano luoghi e beni culturali di valore universale, inquinando la loro integrità e unicità artistica, sono espressione di una sottocultura dilagante che qualifica ciò che non è qualificabile mortificando ciò che è già qualificato.

Un fenomeno disarmante, privo di strutture di senso, che si traduce solo in un esercizio autoreferenziale dove il significato delle opere, là dove c’è, riguarda universi personali e non valori cosmici, meno che mai impegno, civile, sociale o ideologico.

Così ciò che accade a Noto accade anche nella magica Matera, lungo le sinuose strade dei “Sassi”, che portano verso “la Gravina” (il profondo compluvio sui cui versanti vi sono le grotte paleolitiche), in quella armonia metafisica di rara integrità formale e di unicità assoluta, in quella suggestione dichiarata patrimonio dell’umanità, dove si aggregano forme convulse in un equilibrio disarticolato surreale, in quella atmosfera che impone all’animo ritmi sacrali e percezioni ancestrali che lasciano tracce indelebili nella sensibilità del visitatore, ci si imbatta in improbabili opere d’arte installate lungo le strade, nei vicoli, negli slarghi, davanti alle chiese rupestri, sul belvedere. Riproduzioni fuori scala di celebri soggetti ed elementi di opere di Salvator Dalì. Opere che non hanno alcun nesso filologico con il luogo che occupano. Pur sorvolando sul discutibile esercizio artistico di riproporre impropriamente le opere di un altro artista, non si può non osservare l’evidente limite di creatività e l’assoluta assenza di originalità. Ci sono cose che un artista non fa perché non gli arriva l’ispirazione, altre perché avuta l’idea la scarta per pudore, riconoscendo subito che è stata suggerita dal demone della banalità che alberga in tutti noi.  

Lo stesso accadeva fino a qualche tempo fa, nell’area archeologica dell’antica città greco-romana di Tindari, ove all’interno delle vestigia del Ginnasio-Basilica furono installate delle sculture, di cui non si discusse il loro intrinseco valore artistico, ma si criticò la barbara inopportunità di inserirle in quel contesto.

Queste installazioni infettano i luoghi e le menti che li visitano. È come prendere, Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi o l’Inno alla gioia di Ludwig Van Beethoven ed aggiungervi un ulteriore inutile ed ultroneo arrangiamento, specie se di altro stile musicale. Non si tratta di reinterpretare un’opera d’arte ma di aggiungere altro e dunque contaminarla.

Tutte queste operazioni di pseudo valorizzazione dei beni culturali sono il significante della compiacenza politica incolta verso sedicenti artisti, critici dell’arte, curatori e operatori artistici che ad ogni costo debbono imporre per vanità o per scopi ancor più prosaici la loro “vena artistica”, il loro artista d’area, etc..

Questi fenomeni, nella migliore delle ipotesi, sono espressione limpida di intrighi di clientelismo politico e di cortigianerie. Sono espressione di ambienti culturali in cui tutto è amorfo, tutto ha un prezzo, un’utilità, uno scopo e nulla ha più senso e valore.

L’arte è quella cosa che deve produrre valore universale per le genti, per l’umanità, non valore bancario o elettorale per pochi. Come diceva Camus: “l’arte deve darci l’ultima prospettiva della rivolta”. Invece assistiamo a contaminazioni violente di luoghi armonici, di ambienti urbani pregni di senso identitario, forme architettoniche che hanno valore di archetipo, spazi urbani che sono sintesi della distillazione secolare di usi, costumi, necessità, che plasticizzano civiltà millenarie. Tutti elementi la cui integrità espressiva andrebbe protetta per quella è, per la sua bellezza, per la sua suggestione.

Cosa di queste opere può dialogare con tanta bellezza? Con tanto valore storico e culturale? Cosa hanno da aggiungere a certi capolavori dell’arte se non quello di sottrarre loro un po' di valore per qualificarsi? Chi e perché ritiene necessario valorizzare i beni culturali di pregio con queste “opere complementari”?

Sono valorizzazioni all’incontrario. Operazioni pseudo culturali che sfruttano la bellezza per valorizzare l’artista che li produce e il critico che li propone. Insomma una furba operazione da imbonitori che contamina tutto ciò che di bello ha prodotto la nostra civiltà. Autentici processi di valorizzazione della banalità artistica. Forse è giunto il momento di mettere un freno al dilagare di questa modalità scaltra fatta diventare moda, utile canale per legittimare cortigiani e parenti, facendoli assurgere al ruolo di grandi artisti. Una raccomandata scorciatoia, un modo scorretto per millantare senza appello un valore artistico che non c’è, un astuto espediente per poter dire: “Sono un grande artista!.. ho esposto dentro la Cappella Sistina!”.

Sono operazioni sedicenti culturali che intossicano la bellezza, sporcano le emozioni e turbano la percezione della identità dei luoghi e di chi le vive e delle civiltà che le hanno prodotte. Servono solo ai curricula di taluni artisti della domenica che non hanno nessuna bellezza da aggiungere al mondo ma che hanno la pretesa che sia la bellezza del mondo a nobilitare loro.

Aspettiamoci presto un invasione di installazioni lungo le amene scalinate di Amalfi, Positano, Ischia, nel colonnato di piazza S. Pietro a Roma, lungo via Crociferi a Catania, nella scalinata dei Turchi, nelle aree archeologiche di Segesta e di Selinunte, dentro la villa del Casale di Piazza Armerina, nella Cappella Paladina, nella riserva dello Zingaro, nelle spiagge incantate di Lampedusa, lungo le strade medievali di Erice, etc..: Tutti luoghi privi di originalità che ovviamente necessitano del tocco di un “artista”.

La scalinata del Duomo di Noto, così impropriamente contaminata è la forma di un conflitto tra razionalismo e spiritualità, tra Chiesa e Stato.  E’ un’eclatante occupazione di uno spazio che in origine era stato concepito come una grande piazza pubblica. E’ l’esempio più esasperato di tutte le scalinate delle chiese barocche siciliane che ovunque sconfinavano “abusivamente” negli spazi pubblici antistanti, interrompevano la continuità dei marciapiede, invadevano la sede carrabile delle strade, le piazze destinate all’uso laico, gli slarghi cittadini. Una sorta di invasione strategica per conquistare quegli spazi urbani che il vicerè Uzeda aveva imposto fossero spazi laici.

Quella monumentale scalea è la forma più solenne di un recupero di dominio culturale operato dalla Chiesa locale su uno degli impianti urbani più razionalisti dell’isola.

Plasticizza la necessità da parte della Chiesa di contrastare il riformismo illuminista delle nuove città ricostruite dal Duca di Camastra, affinché questi nuovi spazi urbani non influenzassero la condizione spirituale degli uomini portati ad abitarli.

La Chiesa in Sicilia, nel XVIII secolo, reagì al relativismo con la bellezza della suggestione mistica dell’architettura barocca per evitare che i nuovi impianti urbani si rivelassero la struttura fisica nella quale si sarebbe potuta innescare un’emancipante deriva illuminista.

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