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Lunedì, 29 Aprile 2024
La forma delle idee

La forma delle idee

A cura di Carmelo Celona

Cesare Bazzani, fenomenologia di un architetto trasformista che operò anche a Messina senza infamia e senza lode

Il contributo in città attraverso il Palazzo della Prefettura, la Chiesa del Carmine e il Palazzo della Cassa di Risparmio progettata insieme ad Ernesto Basile

Il Palazzo della Prefettura (1920), la Chiesa del Carmine e la Chiesa di S. Caterina (1926), l’Isolato 464, e il Palazzo della Cassa di Risparmio (1925) sono le architetture realizzate da Cesare Bazzani a Messina. L’ultima progettata insieme ad Ernesto Basile. A queste si aggiungono i progetti della Banca d’Italia e del Carcere Giudiziario.

A queste opere riserviamo le prossime puntate di questa rubrica, intanto proveremo ad indagare la figura del loro progettista e il contributo che egli dette con le sue opere all’architettura Italiana del primo novecento.

Cesare Bazzani fu un architetto romano (1873-1939) che visse ed operò in pieno modernismo.

Quando, nel 1897, Ernesto Basile declinava per la prima volta in Italia i verbi del Modern Style nell’Esposizione Nazionale di Palermo egli muoveva già i primi passi come architetto. L’anno prima aveva progettato il restauro del famoso Albergo dell’Orso a Roma. Mentre Raimondo D’Aronco trionfava nell’Esposizione Internazionale di Torino del 1902 con la sua interpretazione dello Stile Secession viennese, Bazzani compiva ventisette anni ed era già un architetto affermato.

Bazzani e il contributo all'architettura italiana

Le opere di Basile e D’Aronco nelle esposizioni citate furono le prime architetture moderniste apparse nel panorama dell’architettura italiana a cavallo tra i due secoli. Inaugurarono la stagione modernista, quando in tutta Europa l’Art Nouveau era già in piena diffusione. In questo scenario continentale, dove irrompevano con forza innovatrice le avanguardie, l’Italia si distingueva con un suo stile nazionale pregno di verbi storicisti di matrice neoeclettica e di marca positivista. Un linguaggio inedito che rifiutava ogni accento progressista nel tentativo di trovare una cifra distintiva e omologante capace di contenere le tradizioni dei vari regionalismi in un linguaggio architettonico conservatore ma univoco, almeno negli edifici pubblici.

Basile e D’Aronco, con la loro rivoluzione stilistica, intrisa di contenuti ideali, trascinarono in breve tempo figure come Giuseppe Sammaruga e Giovan Battista Bossi, entrambi discepoli di Camillo Boito ed organici all’Accademia di Brera, istituzione che aveva dettato i canoni dello stile sabaudo. A questi si accodarono Pietro Fenoglio, Alfredo Campanini, Giovanni Michelazzi, Giuseppe Brega e tanti altri. In questa illustre schiera di architetti italiani che ruppero la sterilità del passatismo opportunista, Cesare Bazzani non c’era.

Il Palmares di Bazzani

Cesare Bazzani nasce a Roma il 5 marzo 1873 e si laurea in ingegneria civile nel 1896. Nei primi anni di professione opererà esclusivamente nella capitale impegnato prevalentemente nel restauro di edifici medievali come il già citato Albergo dell'Orso; il Palazzo della Fornarina ed alcune Casette in via S. Paolino alla Regola. Nel 1899 vince il suo primo concorso d’architettura con un progetto di una chiesa in stile neo gotico a Roma.

Nel 1905 vince il concorso per il completamento dell’antica Chiesa di S. Lorenzo a Firenze. Il progetto non avrà seguito. L’anno successivo (1906) vince il concorso per la Biblioteca Nazionale di Firenze. Quest’opera sarà la sua prima opera pubblica, il suo vero esordio. Un’opera dove esprime tutta la sua formazione storicista adottando un manierismo michelangiolesco associato ad una riproposizione tout cort dei verbi della Cappella Pazzi di Brunelleschi. Uno sfacciato atteggiamento che mirava a compiacere la grande tradizione fiorentina. Alla critica scandalizzata per questo falso architettonico egli rispose: "Non cercai di fare cosa archeologica. Manifestare l'epoca in cui l'opera viene fatta, traendo tale manifestazione dagli elementi d'ambiente, e ispirarsi ai ricordi ed alle tradizioni della storia, mi sembrò la migliore divisa, senza asservire il sentimento mio e le risorse della nostra epoca oltremisura alle tradizioni, cercai di essere d'ambiente". Bazzani da quel momento, ovunque opererà, sarà “dell’ambiente”. Farà di tutto per compiacere le tradizioni locali e i dettati dei suoi committenti che saranno quasi esclusivamente politici. Ciò gli assicurerà una carriera piena di incarichi pubblici elargiti da tutti i poteri e regimi che durante la sua vita professionale si susseguirono. Egli sarà sempre in auge, prima con i Savoia e poi con il Fascismo. Di quest’ultimo si farà interprete, sia della prima fase storicistica che puntava a valorizzare la tradizione italica che della seconda dove il regime elabora una sua cifra architettura distintiva di matrice razional-futurista: l’architettura fascista. In questa circostanza si trasformerà in un architetto razionalista.

Bazzani in quel periodo darà prova di essere il classico architetto di regime, opportunista e capace di sorprendenti trasformismi fino a spingersi ad elaborate persino stilemi progressisti.

Il suo camaleontismo e le sue entrature politiche gli fecero vincere, nel 1908 la Gran Medaglia d’Oro all’Esposizione Internazionale di Venezia ed il concorso per il Palazzo delle belle arti di Roma, che in seguito diverrà la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. In quest’opera dismette il linguaggio rinascimentale usato a Firenze per coniugare un neoclassicismo con forti accenti che celebrano la cifra imperialista e trionfale dell’Antica Roma. Nel 1911 partecipa all’Esposizione Universale di Roma ove rivince la Gran Medaglia d’Oro distinguendosi come interprete ortodosso di quello stile umbertino che in quell’occasione celebrava davanti a tutto il mondo lo Stato savoiardo. Grazie a questa affermazione, nel 1913, gli giunge un altro incarico pubblico prestigioso, il progetto del Palazzo del Ministero della Pubblica Istruzione a Trastevere. Un’opera nella quale adotta pienamente lo Stile Sabaudo, adeguandosi alle celebrative opere pubbliche capitoline di Gaetano Kock e di Giovanni Sacconi.

Fu professore al Museo Artistico Industriale di Roma dal 1903 al 1920 e fu anche figura politica di rilievo ricoprendo il ruolo di consigliere comunale nella capitale dal 1913 al 1920. Per quasi vent’anni fu anche membro del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, dal 1915 al 1923. Fu membro di diverse accademie di belle arti, tra cui quella di Brera. Con l’avvento del fascismo nel 1922 venne nominato Docente della Regia Accademia d’Italia nonché Grande Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. L’anno dopo Cavaliere di Gran Croce, nel 1936 verrà decorato con il Gran Cordone dello stesso ordine. Lo stesso anno divenne Presidente della Consulta Centrale dell'Edilizia e dell'Urbanistica presso il Ministero dell'Africa Italiana.

Dal suo curriculum vitae si evince chiaramente che sia con i Savoia che con il Fascismo ricoprì sempre incarichi nevralgici e realizzò una messe di opere pubbliche per conto di istituzioni governative ed ecclesiastiche, o per istituti bancari. Nel suo palmares troviamo:

- tre Palazzi del Prefettura, a Messina nel 1920, a Foggia nel 1929 e a Terni nel 1930;

- quattro monumenti ai caduti della prima guerra mondiale, a Spoleto, Frascati, Bosa, Forlì e Macerata;

- dieci Palazzi delle Poste e Telegrafi, ad Ascoli, Macerata, Rieti, Terni, Imperia, Forlì, Pescara, Sanremo, Viterbo e Taranto dal 1922 al 1930;

- due palazzi dell’INPS, a Terni e l’Aquila entrambi nel 1934;

- due Case del Fascio, a Macerata nel 1928 e a Taranto (la Casa del Fascismo Ionico) nel 1935;

- due Casse di Risparmio, a Ascoli nel 1914 e a Messina nel 1925 più il Palazzo del Credito Romagnolo a Forlì nel 1923;

- due Ponti monumentali, uno sull’Arno a Pisa e uno a Pescara;

- dodici opere pubbliche di vario genere come: Il Teatro Comunale a San Severo nel 1925; la Centrale Idroelettrica di Terni nel 1927; il Campo Sportivo del Littorio di Foligno nel 1929; il Palazzo degli Studi di Macerata nel 1930; l’ampliamento dell'Ospedale Fatebenefratelli di Roma nel 1930; Il Palazzo Provinciale dell’Economia di Viterbo nel 1931; la Caserma dei Carabinieri di Bari nel 1932; la Casa del Mutilato a Forlì nel 1932; l’Educandato di S. Giuseppe a Macerata nel 1933; la Stazione Marittima di Napoli nel 1934;

- un numero imprecisato ma cospicuo di chiese, tra queste: S. Alò a Terni nel 1923; il Duomo di Pescara nel 1923; la Chiesa del Carmine a Messina nel 1926; la Chiesa S. Antonio a Terni nel 1928; la Chiesa S. Maria degli Angeli ad Assisi nel 1929; la chiesa Madre di Dio a Ponte Milvio, a Roma nel 1930; il Duomo di Predappio nel 1931; Il Duomo di Addis Abeba nel 1935.

A queste si aggiungono quelle più prestigiose già citate: la Biblioteca Nazionale di Firenze, la Galleria Nazionale D’Arte Moderna di Roma e il Palazzo del Ministero dell’Istruzione. Le opere su commissione privata sono state pochissime.

Il contributo di Bazzani all’architettura italiana del primo ‘900

Con questa vastissima produzione di opere pubbliche Bazzani ebbe ottime possibilità di marcare il territorio italiano con la sua cifra stilistica. Invece stranamente nessuna di queste è mai stata segnalata dalla critica o inserita in un compendio di Storia italiana dell’Architettura Contemporanea. Nessuna si è mai distinta efficacemente attivando processi emulativi. Bazzani non ebbe epigoni perchè non avrebbero avuto nulla da emulare da lui.

Da ciò ne deriva che egli non ebbe grandi capacità creative o il coraggio di esplorare linguaggi originali come fecero Basile, D’Aronco, Fenoglio o Sammaruga, e non ebbe nemmeno il talento visionario di Gugliemo Calderini, Giulio Arata, Gaetano Moretti o Ulisse Staderini, né ebbe l’estro iperbolico e colto di Gino Coppedè.

Bazzani fu un opportunista, un architetto per tutte le stagioni, una sorta di mercenario che con la sua architettura non lasciò alcuna traccia rilevante, se non nell’economia della famiglia.

In nessuna delle tante sue opere disseminate in tutta Italia si intravede una spinta creativa degna di nota, o segni e stilemi non già visti. Niente di singolare o di fortemente espressivo. Ovunque ha propinato opere anonime prive di originalità.

Se le sue stesse opportunità di realizzare opere pubbliche le avessero avute le figure sopracitate (Basile, D’Aronco, Calderini, Coppedè, etc.), nel bene o nel male, staremmo qui a raccontare certamente qualcosa di innovativo, avanzato, visionario, singolare, unico. Saremmo certamente di fronte a delle esperienze espressive originali che avrebbe distinto quelle opere pubbliche. Questi talenti avrebbero certamente marcato il territorio nazionale divulgato nuove semantiche e attivato processi culturali di natura fenomenologica.

Leggendo l’intera opera di Bazzani il suo repertorio appare muliebre ma al tempo stesso non esprime nessun termine di originalità, nessun carattere distintivo. Passa dallo storicismo neo manierista all’eclettismo sabaudo, dal medievalismo al neoclassicismo trionfale, dal timido e contaminato modernismo al razionalismo littorio, scorrazza di stile in stile col distacco cinico di un mero esecutore di compiti concordati. Come si direbbe in Sicilia: “tacca u sceccu unni voli u patruni”.

Il suo camaleontismo lo annovera pienamente in quella schiera di professionisti che hanno come primo requisito la capacità di capire in tempo quando cambia il vento del potere ed adeguarsi per primi ad ogni nuovo gusto ad ogni nuova moda, infeudandosi. In questo Bazzani è stato un grande talento. Nonostante nel suo contesto storico si registrassero radicali cambiamenti di potere egli riuscì sempre a mantenere un ruolo centrale e preminente. Riuscì ad essere tra i più ricercati, per quanto anonimi, architetti italiani. Si aggiudicò qualsiasi tipo d’incarico pubblico ma non ebbe mai la considerazione della critica. Non era questo il suo obiettivo professionale. Fu un passatista per scopo, un conservatore per calcolo. Là dove, raramente, adottò linguaggi modernisti lo fece per svuotarli dei loro contenuti ideali rendendoli inoffensivi e annacquati.

Egli appartiene a quello stuolo di professionisti che hanno banalizzato il linguaggio architettonico italiano a partire dall’Unità d’Italia, facendo del mestiere dell’architetto una professione da cortigiano indifferente a qualsiasi presupposto ideale.

Il suo istinto creativo obbedisce di volta in volta al comune sentire, al gusto che il potere di turno vuole che si rappresenti. Spesso è egli stesso a dettare i canoni dell’architettura più consona al potere. Lo fa operando come figura di spicco in quell’accademia che fu la fucina dello stile nazionale sabaudo. Lo fa come membro del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Ruolo con il quale condizionò e orientò non poco l’espressività delle opere pubbliche verso i piatti canoni boitiani di cui lui fu uno dei maggiori interpreti.

Cautamente non sfruttò mai il suo potere operativo per proporre o caldeggiare lessici innovativi, perché sapeva bene che l’innovazione mette in allarme il potere.

Figure oscure che “fama di lor il mondo esser non lassa”

Egli fu una di quelle diffuse professionalità opportuniste che operano solo per senso di appartenenza e per vocazione cortigiana, mai per un ideale o per esprimere originalità artistica. Prestano la loro poca capacità espressiva sempre sul fronte reazionario frenando ogni spinta creativa e innovativa.

Professionisti mediocri che si fanno uomini di corte per ottenere quegli incarichi che diversamente non gli darebbe nessuno, lasciando poco spazio e poche opportunità al talento di altri colleghi.

Oggi si direbbero architetti di area, mediocri nella professione ma abili nel servilismo. Se fosse sempre dipeso da queste figure oggi non potremmo ammirare quei capolavori dell’architettura che caratterizzano l’Italia. Non avremmo la Firenze rinascimentale di Leon Battista Alberti e Filippo Brunelleschi, la Roma barocca di Lorenzo Bernini e Francesco Borromini, quella manierista di Michelangelo, la Torino assolutista di Filippo Juvarra, la Palermo Liberty di Ernesto Basile, la Catania barocca di Giovan Battista Vaccarini, etc..

Sono figure che con la loro scarsa capacità espressiva e con la loro compiacente disponibilità gregaria verso la politica e il potere determinano cadute di senso nell’architettura e nell’urbanistica, perdite di espressività formale della cui afasia ormai tutte le città soffrono.

Sono molte le città che abbondando di opere mediocri, espressione di professionisti mediocri selezionati da un potere altrettanto mediocre che non ambisce a differenziarsi producendo una bellezza nuova che lo rappresenti, come accadeva un tempo, bensì puntando ad intercettare il consenso facile e in alcuni casi al ritorno prosaico di utilità per la parcella pagata giovevoli per le campagne elettorali.

Gran parte delle città odierne sono caratterizzate da una omologazione di linguaggi inespressivi, appiattiti dalla speculazione politica, dall’appartenenza e da un leguleismo vischioso e asfissiante che punta sulla legittimità e mai sull’efficacia banalizzando ogni originalità estetica e funzionale.

Certa politica per mantenere e incrementare il consenso si deve nutrire di professionisti cortigiani i quali a loro volta sanno che quella è l’unica strada per affermarsi in assenza di quei requisiti essenziali che un tempo servivano per avere successo: preparazione, creatività e talento. Tutto questo inesorabilmente va a discapito della indispensabile qualità, senza la quale le città non funzionano e le architetture non attivano alcun processo di crescita identitaria e culturale.

Oggi rispetto ai tempi di Bazzani lo scenario è ancor più tragico, un professionista per quanto bravo difficilmente trova sbocchi diversi da quelli di un’integrazione funzionale nel sistema di potere. Sistema ormai scientemente programmato per inibire ogni libera espressività ed ogni talento, svilendo ogni rigurgito di dignità professionale.

Così si generavano ovunque perniciosi processi di valorizzazione dell’incompetenza che determinano profonde cadute estetiche e culturali.

I professionisti infeudati tolgono ai colleghi più valenti e attrezzati l’opportunità di esprimersi con architetture significative che potrebbero caratterizzare meglio i luoghi e il paesaggio in cui sarebbero chiamati ad operare.

Si sottrae così alle città la possibilità di essere caratterizzate da quella qualità architettonica e originalità artistica che potrebbe  marcare quei territori, distinguerli con linguaggi sensati e forme efficaci come è accaduto con Il Colonnato di S. Pietro del Bernini a Roma, La Cupola di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi, a Firenze, o i più recenti Centre Georges Pompidou di Richard Roger e Renzo Piano a Parigi, il Guggenheim Museum di Frank Gehry a Bilbao, l’ Acquatics Center di Zaha Hadida a Lontra , etc.,  che diverrebbero  archetipi inevitabilmente potenti attrattori antropici in senso culturale, identitario, sociale, ideale e in ultimo turistico.

Quanta gente visita Firenze, Venezia, Torino, Roma, per ammirare l’unicità delle loro architetture? Come sarebbe stata Firenze se i Medici si fossero avvalsi non dei più bravi architetti ma dei più servili?

Queste figure oscure che “fama di lor il mondo esser non lassa” sono autori o complici di delitti culturali che bloccano la crescita civile di un popolo, relegandolo in una asfissiante banalità espressiva che condiziona fortemente la loro identità estetica e sociale.

L’architettura non è come la pittura, la scultura o il designer. Un quadro se è brutto lo si può rimuovere dalla parete, una scultura se è di cattivo gusto la si può disinstallare, un oggetto di designer se non funziona lo si può non comprare, ma un’architettura, una volta realizzata, difficilmente la si può abbattere. Condizionerà a lungo il paesaggio urbano e l’animo di chi lo vive.

Un’architettura di scarsa qualità formale e funzionale, specie se un’opera pubblica o uno spazio pubblico di relazione, la si subisce per sempre, a meno che un evento calamitoso non la distrugga. Essa comprometterà ogni processo culturale ed estetico virtuoso che potrebbe svilupparsi in quel luogo

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