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Cronaca

Beni confiscati, l'accusa dell’Antimafia: "In Sicilia attive solo 39 imprese su 780"

Delle 459 imprese per cui è stato concluso l'iter gestorio, nell'Isola solo 11 non sono state destinate alla liquidazione. Ecco alcuni dei dati che emergono dalla relazione della commissione regionale presieduta da Claudio Fava. "Per svoltare serve volontà politica"

Su 780 aziende sottratto dallo Stato a Cosa nostra solo 39 risultano attive. C'è di più: delle 459 imprese per cui è stato portato a compimento l’iter gestorio, nell’Isola solo 11 non sono state destinate alla liquidazione: nel dettaglio, 9 sono state definitivamente vendute e 2 date in affitto. Sono questi alcuni dei dati più allarmanti che emergono dalla relazione che la commissione parlamentare Antimafia dell'Ars, presieduta da Claudio Fava, ha approvato oggi all'unanimità. 

Parte questi numeri la “fotografia” scattata dall’Antimafia regionale, secondo cui la gestione dei beni confiscati si caratterizza per "una prassi stanca e poco felice che ha progressivamente svuotato lo spirito profondo e positivo" della legge Rognoni-La Torre, la cui applicazione è rimasta "travolta dall’improvvisazione delle istituzioni e dalla farraginosità della burocrazia". Così centinaia, migliaia di beni - concentrati per lo più in Sicilia - anziché essere restituiti alla collettività, sono stati "abbandonati, vandalizzati, dimenticati" o "continuano ad essere impunemente utilizzati ed abitati da coloro ai quali furono confiscati".

Nelle 191 pagine della relazione della commissione Antimafia - frutto di 51 sedute, 71 audizioni e centinaia di atti giudiziari e amministrativi acquisiti - viene individuata sin da subito la debolezza dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati: un organismo a corto di personale e risorse, che in passato stava per essere “scalato” da finti paladini dell’antimafia come Antonello Montante. All’ex presidente di Sicindustria è dedicato un intero capitolo della relazione: dalla nomina nel 2014 in seno al Consiglio direttivo dell’Agenzia - su proposta dell’allora ministro dell’Interno Alfano (interrogato dalla commissione) - quando già era indagato da sei mesi dalla Procura di Caltanissetta per concorso esterno in associazione mafiosa, all’autosospensione (febbraio 2015), alle definitive dimissioni (22 luglio 2015). Il progetto in nuce (la cosiddetta “riforma Montante”), così come prospettato dall’ex delegato alla Legalità di Confindustria, avrebbe dovuto portare a una "semplificazione e velocizzazione" dell'assegnazione dei beni confiscati alla mafia per "metterli a reddito" con la vendita ai privati.

"Il contrario dello spirito della legge, ovvero la restituzione alla collettività" sottolinea l’Antimafia che, nella sua relazione si occupa pure del "caso Saguto" e del ruolo degli amministratori giudiziari, mettendo in luce esperienze positive (ad esempio la Geotrans) e negative (il gruppo Riela) nella gestione delle aziende. Già, le aziende: su 2.587, ben il 30,15% si trova sul territorio siciliano. La maggior parte versa in uno stato "allarmante". Al 31 dicembre 2019, solo 654 imprese sono attive (il 25%); mentre 1.024 risultano inattive, 399 cancellate, 78 in corso di accertamenti e 432 in liquidazione.

Le ragioni dei fallimenti sono parecchie. Vanno ad esempio ricercate nel "costo della legalità", ovvero il dover rispettare le leggi dopo la confisca. Al netto delle "aziende cartiere", utilizzate dalla mafia solo per false fatturazioni e riciclaggio di denaro, resta quel "livello di preoccupante mortalità" che, a cascata, implica la perdita di posti di lavoro ed è condizionato da fattori quali ad esempio la difficoltà di accedere al credito o l’"abbandono" da parte dei clienti. Non meno problematica è la gestione degli immobili. Al 31 dicembre 2019, l’intero patrimonio dell’Agenzia era composto da 16.473 beni (il 34,46% in Sicilia, pari a 5.677 cespiti). Il 65% di questi beni (68% in Sicilia) risulta già confiscato in via definitiva e, pertanto, potenzialmente destinabile. La soluzione preferita dall’Agenzia è il trasferimento al patrimonio immobiliare degli enti territoriali. "Ma è proprio tra la destinazione e l’effettiva utilizzazione del bene che si determina spesso un gap preoccupante" scrive l’Antimafia, sottolineando che "per il 46,76% dei beni assegnati non è ancora stata avviata la necessaria opera di rifunzionalizzazione". Dato più allarmante in Sicilia perché sale al 50,59%.

"Serve la volontà politica per intervenire in modo netto nel sistema di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia: vorremmo sapere se per il governo Draghi questa sia una priorità" afferma il presidente della commissione Antimafia dell'Ars, Claudio Fava. La relazione della commissione propone al legislatore una serie di soluzioni: dalla costituzione di un osservatorio regionale che funga da cabina di regia all'obbligatorietà dei tavoli provinciali permanenti in prefettura, passando per una diversa gestione del Fondo unico giustizia (Fug). "Appronteremo un ddl regionale e una legge-voto per il Parlamento per modificare il Codice antimafia" annuncia Fava, convinto che vada rivisto "il meccanismo per la scelta degli amministratori giudiziari» e «il profilo istituzionale dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati".

Organismo che, su 200 unità di personale previste, ha una scopertura di poco inferiore a due terzi dei ruoli e va avanti con dipendenti “comandati” da altri enti. Ecco perché, rilevano Roberta Schillaci e Antonio De Luca (M5S), andrebbe "potenziato nelle sedi periferiche". Inoltre, in relazione agli amministratori giudiziari, Schillaci e De Luca aggiungono che va "vietato il cumulo d’incarichi riferiti all’intero Tribunale e non più alla sola sezione Misure di Prevenzione". L’obiettivo è scongiurare quanto accaduto con chi ha fatto incetta d’incarichi (ad esempio l’avvocato Cappellano Seminara) o, nel caso del commercialista Maurizio Lipani, con chi avrebbe usato i conti correnti d’imprese da lui gestite a mo’ di bancomat privato. "La riforma seguita al caso Saguto - conclude Fava - è stata un’occasione persa".

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